La Storia

Mentre raccogliamo e analizziamo documenti, articoli, testimonianze per ricostruire in modo ampio ed attendibile la storia del CAI a Valmadrera, continuamente verifichiamo che la presenza delle montagne lascia nei nostri cuori un segno profondo accompagnato da ricordi di duro lavoro e di fatica condivisa, da legami di amicizia e di gioiose compagnie, insieme a timore davanti all’imponenza delle cime, a voglia di conoscere e di misurare le proprie forze. Per i nostri antenati la montagna è stata a lungo importante risorsa per la sussistenza delle famiglie: nel 1600 “la comunità di Valmadrera e i suoi uomini” avevano il diritto di usare in comune i monti del territorio che fornivano: legna da ardere, fieno, strame, lumache, pascolo per le mucche ed anche sassi per fare calcina. In un’economia povera erano prodotti così importanti che tutti gli abitanti usavano insieme e insieme proteggevano le loro montagne, imparando ad amarle.

Ci vengono in mente I Promessi Sposi, Lucia con “Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente”, ma anche Renzo in cammino da Monza a Milano quando “vide quella granmacchina del duomo sola sul piano, come se, non di mezzo a una città, ma sorgesse in un deserto; e fermò su due piedi, dimenticando tutti i suoi guai, a contemplare anche da lontano quell’ottava maraviglia, di cui aveva tanto sentito parlare fin da bambino. Ma dopo qualche momento, voltandosi indietro, vide all’orizzonte quella cresta frastagliata di montagne, vide distinto e alto tra quelle il suo Resegone, si sentì tutto rimescolare il sangue, stette lì alquanto a guardar tristamente da quella parte, poi tristemente si voltò, e seguitò la sua strada.”

“Quella cresta frastagliata di montagne” delle Prealpi che Renzo paragona alle guglie dell’ottava meraviglia del mondo è nel cuor di tutti coloro che sono nati o cresciuti alle loro pendici o che hanno imparato a conoscerle, frequentandole. Ancor oggi, percorrendo la superstrada da Milano verso Lecco, è possibile cogliere in alcuni punti quella che fu la visione di Renzo: la fretta, il traffico, la quotidianità ci impediscono di soffermare lo sguardo, ma quando stiamo un po’ più a lungo lontani dal nostro territorio, la visione della “cresta frastagliata di montagne” ci fa balzare il cuore e ci fa sentire finalmente a casa perché le montagne sono parte di noi e della storia della nostra comunità. Torniamo a Valmadrera con un gruppo di giovani escursionisti animati dal desiderio di lasciare sui monti un segno tangibile del loro attaccamento alle montagne, che fosse testimonianza per le generazioni future dei loro sogni e delle loro imprese…, ma lasciamola parola ad uno di loro, Luigi Corti:

Ricordo con nostalgia, come se fosse stato ieri – e invece quanti anni sono passati -, quando nel 1937 decidemmo di mettere una croce sul GianMaria, quale simbolo della nostra fede e del nostro attaccamento alle montagne e quale punto di partenza per ciò che dei nostri sogni avremmo realizzato. A quei tempi alpinisti a Valmadrera ce n’erano pochi, e questi stessi si limitavano a fare dell’escursionismo salendo e scendendo le nostre montagne. Noi eravamo un piccolo gruppo, per di più molto giovani, e le nostre aspirazioni erano spesso derise e incomprese. Il nostro desiderio era di formare un’associazione di tutti gli appassionati della montagna, per poter fare cose sempre più grandi.

Allora, per noi, l’iscrizione al CAI era un’utopia o, quantomeno, un privilegio di pochi alpinisti già affermati. “Sono degli incoscienti, delle teste matte!” ci sentivamo dire, quando, con i nostri zoccoli chiodati (che erano la nostra caratteristica) salivamo a Pianezzo dove ci potevamo esercitare sulla roccia, salendo il Pilastrello e il Gian-Maria con corde rudimentali che oggi farebbero ridere. Fu così che una domenica decidemmo di mettere sul GianMaria una croce che costruimmo con le nostre mani e facemmo poi benedire dal parroco Don Arturo Pozzi.

Per noi quella croce era come un simbolo, come qualcosa che ci teneva uniti e ci spronava a fare sempre di più. Poi dovemmo partire per il servizio militare, ci fu la guerra, e qualcuno di noi purtroppo non tornò più. Quando ci ritrovammo di nuovo, più maturi, sempre con la stessa passione e lo stesso amore per le montagne, decidemmo che anche a Valmadrera era tempo di organizzarsi in associazioni, affinché altri giovani con gli stessi ideali potessero accostarsi all’alpinismo. I tempi erano maturi e la mentalità della gente era cambiata, le cose che allora sembravano impossibili ora si potevano realizzare, e così, a dieci anni di distanza, nel 1947, fondammo la SEV -associazione locale- e due anni dopo la sottosezione del CAI. Il nostro sogno più grande era diventato realtà; anche Valmadrera veniva finalmente annoverata tra le fila del più grande sodalizio alpino nazionale.

Come inizio di una più vasta attività, decidemmo di salire sul Monte Rosa e, successivamente sul Cervino; queste ascensioni ci diedero una grande soddisfazione: finalmente avevamo messo piede su due “quattromila”, su due giganti d’Europa. Fu per la nostra sottosezione un passo avanti, un invito ad altre cime, un esempio che altri Valmadreresi imitarono ripetendo più volte l’ascensione di queste splendide montagne.

Ormai la strada del vero alpinismo era aperta: due giovani promesse, Carlo Rusconi ed Elvezio Dell’Oro, si affermavano su vie sempre più ardimentose, tracciate da alpinisti di fama internazionale. Purtroppo pagarono con la vita il loro amore per la montagna; fu per tutti noi un duro colpo, per alcuni uno scoraggiamento. Ma la croce del GianMaria stava là, come invito a salire. Altri giovani, infatti, iniziarono su questa palestra le loro prime timide salite, che li avrebbero successivamente portati alle grandi imprese che tutti conosciamo.

Siamo nel 1965 quando da sottosezione passiamo a sezione, l’anno in cui si celebra in tutta Italia il primo centenario della conquista del Cervino. In questa ricorrenza, tenuto conto del buon numero di soci che già sono saliti su quella bellissima montagna, ci viene concessa dal presidente onorario delle guide del Cervino l’autorizzazione per formare, in seno alla novella sezione il Club degli amici del Cervino. Altre mete vengono raggiunte, tre le più importanti la Scuola Nazionale di Alpinismo in funzione ormai da quattro anni e diretta ultimamente dal nostro Giovanni Rusconi istruttore nazionale, che, per onorare la memoria del fratello Carlo, ne ha seguito le orme.”

Nel primo registro recuperato recentemente risalente al 1951 figurano iscritti 54 soci, alcuni dei quali trasferiti dalla Sezione madre di Lecco, tra questi Darvini Dell’Oro, Luigi Corti, don Antonio Redaelli, Mario Pirola e Francesco Sandionigi e due donne, Rachele Gavazzi e Silvana Pontiggia. Una terza Maria Giovanna Imperatori risulta iscritta nel 1950, mentre quest’ultima ha rivolto la sua attività prevalentemente all’escursionismo, Rachele Gavazzi oltre a salire alcuni quattromila nel massiccio del Monte Rosa e Bernina ha svolto una notevole attività arrampicatoria sia sulle nostre montagne che nelle Dolomiti con personaggi di primo piano tra cui Gino Soldà.

Anche Silvana Pontiggia, dal carattere esuberante e portato all’avventura ha visitato le grandi montagne dell’arco alpino compiendo salite di notevole rilievo legata in prevalenza alla corda di Gigi Vitali e Ginetto Esposito, sempre con i due forti alpinisti ha salito vie si notevole difficoltà sulle pareti delle Grigne, del Masino e delle Dolomiti.

Già all’inizio degli anni trenta appassionati escursionisti valmadreresi avevano iniziato a salire i monti della zona di Pianezzo, non avevano formato un vero gruppo, ma si sentivano accomunati dalla voglia di conoscere la montagna: nessuno insegnava loro le tecniche di arrampicata, ma tutti procedevano per tentativi utilizzando attrezzature “di fortuna”.

“Il 28 aprile 1934 è, per l’alpinismo lecchese, …una data decisiva per capire la tendenza a fare gruppo propria del modo di andare in montagna sviluppatosi in quest’area geografica. Nasce quel giorno il GAFNI (Gruppo Arrampicatori Fascisti Nuova Italia),” meglio, nasce la sezione lecchese del GAFNI, il primo vero gruppo alpinistico italiano, voluto dal regime fascista con scopi militari e propagandistici, nel periodo del ventennio “il regime usava tutti i mezzi possibili per fare breccia tra i giovani”.

Il GAFNI diede a tanti appassionati di montagna la possibilità di avvicinarsi all’alpinismo e contribuì a fare del lecchese un territorio con forti tradizioni alpinistiche.

Anche l’alpinismo valmadrerese ha attinto a quel gran serbatoio di tecnica che era il GAFNI e Darvini Dell’Oro, che è il capostipite dell’alpinismo nostrano, ha mosso i primi passi proprio in questa associazione. Ben presto, negli anni che precedettero la guerra, Darvini divenne il leader dei gruppetti di alpinisti valmadreresi che frequentavano la Grigna… in quegli anni le gite in Grigna si svolgevano partendo a piedi la sera del sabato da Valmadrera, dormendo all’aperto sul piazzale della chiesetta ai Resinelli per poi dedicare la giornata di domenica alle arrampicate sulle guglie più famose del gruppo.”

Gli escursionisti valmadreresi, che scherzosamente tra loro si chiamavano CAZ, Compagnia Alpinistica Zoccoli, per via degli zoccoli ferrati – gli scarponi erano un miraggio, ne ebbe un paio Darvini Dell’Oro dal GAFNI insieme ad alcune corde professionali, mentre i suoi amici adattavano le corde per legare il fieno, “prese a prestito”da nonni o genitori contadini e private dai “sughett”-, arrivavano fino a Laorca dove venivano riconosciuti per il rumore che li accompagnava, proseguivano per la Val Calolden fino ai Piani Resinelli, quindi arrampicavano sulle pareti della Grigna a piedi nudi, -racconta Luigi Corti, uno dei fondatori del Gruppo CAI-. Quando invece la meta era il Pizzo dei Tre Signori, dovevamo raggiungere Introbio in bicicletta, fortunatamente ci era concesso ricoverare la bicicletta nella casa del Parroco, grazie alla nostra amicizia con un allora giovane sacerdote valmadrerese, oggi monsignor Bernardo Citterio.”

Dal 1939 Darvini Dell’Oro, insieme all’amico Pierino Dell’Oro, si sentì maturo per mettere in pratica gli insegnamenti ricevuti in seno al GAFNI e aprire vie tutte valmadreresi sui Corni di Canzo: nel settembre tracciò a soli diciassette anni la via sul Corno Orientale e nel maggio del 1940 quella sul Corno Rat, della quale Darvini conserva ricordi vividi e pittoreschi.

Il primo tentativo l’abbiamo fatto con la corda da muratore del mio papà. Avevamo quattro chiodi in tutto ed io, a dire il vero, volevo tornare indietro, ma il Pierino da sotto mi diceva :”Tàchess ai brocch” (attaccati ai cespugli). Gli ho dato retta. Poi sono salito in piedi a un blocco e quello s’è lasciato giù, mi sono salvato attaccandomi all’unico cespuglio e abbiamo proseguito. “Eh… gh’è dent un bel tuchelin drezz…” (che si potrebbe tradurre, in linguaggio da nota tecnica odierna: segue un tratto verticale)…”

“…Siamo tornati all’attacco “la festa dopo”, armati di due corde da cinquanta metri prestateci dal Galbusera, uno più vecchio di me che mi aveva portato a fare l’Angelina alla mia prima uscita in Grigna, prima ancora di conoscere il Ginetto.” Molti valmadreresi che si trovavano a San Tomaso seguivano con fin troppo interesse il nuovo tentativo di scalata: “Venivano sotto alla parete. E noi a gridare di togliersi di sotto che cadevano sassi. In certi punti, dove la roccia era più sporca i sassi volavano solo a guardarli. Fra i curiosi c’erano anche le autorità del Comune, evidentemente interessate a tutte le attività sportive. Mi ricordo, infatti, che il Comune organizzava diverse attività: ginnastica, bicicletta, corsa.

Va ricordato che per passare sulla liscia placca della quarta lunghezza Darvini lanciò una corda con appesi dei chiodi su un alberello che si trovava dalla parte opposta della placca. Riuscita l’operazione il capo della corda arrivò al secondo della cordata, Pierino Dell’Oro, il quale riuscì a farlo pervenire a Darvini. I due sulla parete ancorarono la corda e passarono così l’ultimo ostacolo. Tale corda rimase fino all’anno successivo (1941) quando Mario Canali e Giuseppe Dell’Oro (Zipa) misero un tondino di acciaio “vergela” che restò fino alla metà degli anni sessanta.

Nel mese successivo, giugno 1940, l’Italia entrò in guerra a fianco della Germania; il conflitto mondiale chiese il sacrificio di tutti, “la punta di diamante dell’alpinismo valmadrerese si vide destinata ad Aosta, più precisamente alla Scuola Militare Alpina… Darvini ebbe modo di iniziare anche la pratica dello sci, e durante l’inverno 1941- 1942 prese parte a un corso invernale di sci ed alta montagna al Rifugio Casati, unendo in questo modo al suo bagaglio personale la conoscenza di quelle tecniche di progressione e discesa che vennero inseguito insegnate al primo gruppo di sci alpinisti del nostro paese.

Il 6 settembre 1942 fu una delle giornate più singolari della cronaca alpinistica dei Corni di Canzo: “due fortissimi arrampicatori calolziesi, Ercole Esposito, detto Ruchin, e Alfredo Colombo rispettivamente in compagnia del lecchese Emilio Galli e del milanese Gianfranco Ferrari”, tutti e quattro alpinisti della sottosezione CAI Alfa Romeo, attaccarono la parete Nord Est del Corno Centrale e vi aprirono due nuove vie, in quel momento le più difficili di quelle montagne.

La guerra continuò, e la pratica dell’alpinismo venne temporaneamente abbandonata sui monti “i boschi erano costantemente ripuliti dal legname, fonte vitale per trascorrere gli inverni attorno al camino, mentre le rocce in silenzio, aspettavano il risveglio delle attività”. Le montagne ospitavano e sembravano favorire con le loro asperità e gli anfratti la guerra di Resistenza.

La fine delle ostilità nel 1945 riportò, insieme alla voglia di rinascita morale ed economica, “l’inizio di una più vasta serie di attività in montagna. Tra i giovani pionieri valmadreresi non è da dimenticare la figura di Mario Pirola. Le sue prime attività spaziavano dalle camminate allo scialpinismo, dai timidi approcci con la roccia alla ricerca speleologica.”

Giovani e meno giovani partivano, per la maggior parte a piedi, i più fortunati in bicicletta, verso le montagne di casa nostra e dei dintorni. Tutti uscivano da casa nascondendo accuratamente l’attrezzatura sia perché era opinione comune che fosse pericoloso scalare i monti, sia perché la pratica dell’alpinismo non si conciliava con i tempi della messa e del catechismo domenicale. Negli anni 1946 e 1947 “nomi nuovi si unirono alla lista dei pionieri valmadreresi” e riportarono l’attività alpinistica sui Corni di Canzo: il giovane Carlo Rusconi “fece le sue prime apparizioni” nel 1946 quando assieme a Darvini Dell’Oro e Luciano Corti tracciò una via sulla Torre Desio, mentre nell’agosto del ’47 “Darvino Dell’Oro e Dante Maggi aprirono un nuovo itinerario sul Corno Centrale (3 tècc), quasi una rivincita dopo tutto quel tempo trascorso in guerra.” “Dopo il secondo conflitto mondiale, il piccolo mondo degli alpinisti valmadreresi si ritrovò, come sua abitudine, alla “Ferera” a Pianezzo e da quelle domeniche spensierate nacque l’idea di fondare prima la SEV (Società Escursionisti Valmadreresi) e poi il CAI.” In effetti alcuni escursionisti erano già iscritti alla sezione del CAI di Lecco, pochi in verità perché la quota di associazione era piuttosto elevata per le tasche vuote dei valmadreresi, ma i tempi erano ormai maturi e il numero di “ammalati di montagna” andava sempre crescendo, al punto tale da far sentire l’esigenza di essere riconosciuti con tanto di sede e di avere totale indipendenza dalla sezione madre del CAI di Lecco, alla quale i valmadreresi sarebbero comunque rimasti legati.

Il 2 giugno 1947 -secondo anniversario della proclamazione della Repubblica Italiana- era nata a Valmadrera la SEV (Società Escursionisti Valmadreresi) e due anni dopo, nel 1949, Riccardo Cassin, allora presidente del CAI di Lecco, concesse il permesso di istituire la Sottosezione CAI di Valmadrera. La prima sede fu condivisa con la SEV fino al 1965, e si trovava in via Manzoni in una saletta della trattoria “Spregascina”.

Sul finire degli anni quaranta Carlo Rusconi divenne una presenza significativa sui monti di casa e Darvini Dell’Oro rivisse i momenti della loro prima ascensione alla Torre Desio durante un incontro avvenuto nella sede del CAI nel 1989.

Darvini ha rievocato quell’ascensione con entusiasmo, mimando i movimenti che l’hanno costretto a fare piramide umana con Carlo sulle spalle, ci ha raccontato quanto quel ragazzo, che allora aveva sedici anni, era tecnicamente e fisicamente dotato.

Probabilmente vedeva in lui il suo successore e sicuramente è stato fino alla sua morte, l’alpinista di punta dell’ambiente valmadrerese”.

Volendosi allenare per ascensioni più impegnative, quali il Monte Rosa o il Cervino, Carlo e gli amici si recavano in Val Dell’Oro, considerata già allora un’interessante palestra di roccia, e dove nel 1949 Carlo e Luciano Corti avevano tracciato un itinerario di circa cinquanta metri. Nel 1951, durante il periodo del servizio militare, Luigi Rusconi (Pacin) salì la Punta Walker alle Grandes Jorasses. Indimenticabile fu però l’ascensione al Cervino compiuta senza guida i giorni 12-13-14 agosto 1952 da Carlo Rusconi, Luigi Rusconi (Pacin), Darvini Dell’Oro e Luigi Corti, dopo un primo tentativo fallito nel 1950. In quell’occasione i valmadreresi ebbero l’onore di essere chiamati a far parte del “Club Amici del Cervino”.

Dai ricordi di Giordano Dell’Oro, altra figura significativa nell’ambito della sezione del CAI Valmadrera, emerge la grande passione del Rusconi per le Grigne: “Alle 6 di domenica mattina andavo al Caleotto (dove Carlo lavorava come operaio facendo anche i turni di notte ndr.), gli portavo lo zaino e insieme andavamo ai Resinelli in bicicletta per arrampicare tutto il giorno e tornare a casa la sera”. Il valore dell’alpinista valmadrerese era talmente riconosciuto nel lecchese, che nel 1954 Carlo ricevette un premio di centomila lire messo in palio dall’Unione Industriali di Lecco e che veniva assegnato per meriti alpinistici. In quello stesso anno Rusconi tracciò con Alfredo Villa l’impegnativo itinerario sul Pilastro Maggiore dei Corni di Canzo; i chiodi che servirono per superare la parete erano di fattura artigianale: Carlo… “forgiò assieme ad Alfredo Villa degli esilissimi chiodi, utilizzati in quell’occasione per progredire su una liscia placca attraversata da una sottilissima fessura”. Purtroppo l’anno seguente, era il 1955, Carlo Rusconi morì cadendo dai Torrioni Magnaghi.

L’attività della sezione CAI Valmadrera non si esauriva con la sola pratica dell’alpinismo, ma proponeva anche l’escursionismo e lo scialpinismo.

Tra i primi praticanti di queste attività spicca la figura di Mario Pirola, eclettico personaggio che già a quei tempi con l’amico Luigi Castagna realizzò vari concatenamenti, naturalmente in giornata, sulle nostre montagne: il giorno di ferragosto 1955 Pirola partì da solo da Valmadrera alla volta di Resegone, Boazzo, Ballabio, Grignetta, Grignone con discesa a Mandello. Solo due violenti temporali impedirono al nostro alpinista di attraversare in barca il lago per poter raggiungere i Corni di Canzo e tornare per sera in paese. Darvino Dell’Oro portò invece in paese la pratica dello scialpinismo avendo frequentato un corso di sci e alta montagna al Rifugio Casati. Egli trovò fertile terreno nei giovani Mario Pirola e Castino Canali che presto si dotarono, montando pelli di tessilfoca costruite artigianalmente, di sci idonei e cominciarono le loro salite nelle domeniche d’inverno, all’inizio sulle montagne di casa, Pianezzo, Bevesco, Cornizzolo, poi, acquisita la tecnica, si avventurarono sulle montagne della Valtellina e dell’Engadina. Intorno agli anni cinquanta si costituì in seno alla Sottosezione anche un gruppo di “curiosi” delle grotte. Ancora Mario Pirola insieme a Cesare Dell’Oro, ai fratelli Elvezio e Giordano Dell’Oro, ad Alessandro ed Enrico Rusconi e allo stesso Carlo Rusconi si dedicò alla scoperta e alla visitazione di nuove grotte:

Giordano ricorda che nel “Buco della Sabbia”a Civate i novelli speleologi trovarono alcuni antichi reperti. I valmadreresi erano allora in contatto con uno studente di geologia e direttore della rivista “Rassegna Speleologica” di Como, Salvatore Dell’Oca il quale iscrisse i ragazzi allo SCUC Speleo Club Universitario Comense.

I membri della sottosezione erano estremamente attivi, tanto che una decina di essi organizzò una squadra di soccorso alpino, e, grazie alla disponibilità della Croce Rossa di Lecco, frequentò corsi di primo soccorso. Tuttavia le ascensioni e le scalate in montagna rimanevano l’attività primaria della sezione e la grande passione dei valmadreresi. Giordano Dell’Oro ricorda che con il fratello trascorreva le domeniche nel tentativo di apprendere le tecniche di arrampicata. Non esistevano ancora scuole di alpinismo e non era usanza diffusa insegnare ad arrampicare; chi voleva imparare osservava semplicemente chi già arrampicava cercando di cogliere e carpire i segreti delle tecniche di progressione, oppure consultava i pochi manuali di arrampicata disponibili.

Per imparare la tecnica della corda doppia io e mio fratello -racconta Giordano- abbiamo passato due domeniche a Pianezzo facendo numerosi tentativi. Dopo quella esperienza ho ritenuto che fosse giusto insegnare ai giovani ad arrampicare.” Il fratello Elvezio, caduto dalla Torre Trieste nell’agosto del 1958, era un forte arrampicatore, di lui si ricordano diverse prime ripetizioni di vie allora considerate estreme come la “Esposito” (Ruchin) ai Corni di Canzo, salita con l’amico Cesare Dell’Oro. Per prepararsi alle ascensioni Elvezio si allenava con i mezzi che gli erano a portata di mano. “Questo giovane precorse persino i tempi, elaborando una forma rudimentale di allenamento finalizzato all’arrampicata. D’inverno partiva da Valmadrera per recarsi al lavoro in bicicletta senza usare i guanti, abituando così le mani al freddo pungente. Aveva inoltre acquistato attrezzi per rinforzare le dita e la muscolatura. L’esercizio più impegnativo era però costituito da parecchi giri da sopra a sotto il tavolo da cucina utili per prepararsi alle pareti strapiombanti”. Nel 1956 i due fratelli Dell’Oro aprirono una via sul Corno Centrale, e nell’inverno successivo tracciarono un nuovo itinerario a Balmuccia in Valsesia, che oltre ad essere la prima ascensione era anche la prima invernale. L’epilogo delle avventure di Elvezio è tristemente noto: la sua morte, a poca distanza da quella di Carlo Rusconi, segnò gli ultimi anni cinquanta.

La scomparsa di due figure diventate carismatiche nell’universo alpinistico locale lasciò un segno così profondo da provocare un periodo di stasi e di ripensamento.

Solo verso la metà degli anni sessanta l’attività alpinistica a Valmadrera riprese vigore grazie alle imprese di una nuova generazione. Furono Giovanni e Antonio Rusconi, fratelli di Carlo, con Giorgio Tessari i primi a ridare vigore all’alpinismo valmadrerese. Una delle maggiori difficoltà che questi giovani dovettero affrontare fu sicuramente l’opposizione delle famiglie già provate dai funesti eventi; ma la determinazione e l’inventiva non facevano difetto a questi ragazzi.

Il primo successo della emergente generazione capitò nel 1964, Giorgio Tessari e Antonio Rusconi, non ancora ventenne, tracciarono sulla parete Nord Est del Corno Orientale la via don Arturo Pozzi, allora Parroco di Valmadrera.

Questo itinerario era già stato addocchiato da Carlo poco tempo prima della sua scomparsa. Nello stesso anno la medesima cordata insieme ad Angelo Canali realizzò la via Quattordio su una evidente torre del Moregallo, oggi denominata Torrione Quattordio.

Uno dei sogni dei ragazzi era poter frequentare la prestigiosa scuola dei Ragni, ma le scarse risorse economiche consentivano solo l’apprendimento dai pochi manuali reperibili e dall’esperienza dei predecessori. Furono di notevole aiuto Dionigi e Castino Canali, i personaggi che fecero da punto di collegamento tra le due generazioni e da stimolo per le ripetizioni delle classiche vie delle Alpi.

Sulla spinta dei risultati che i giovani andavano ottenendo si aggregarono Angelo Canali, Pietro Paredi e Gianni Rusconi che diventò in seguito il vero leader di quella generazione.

Il 1965 fu per il CAI di Valmadrera un anno importante: la Sottosezione divenne finalmente Sezione autonoma. Giordano Dell’Oro, già reggente della Sottosezione, venne eletto primo presidente, Mario Ricci, che aveva caldeggiato e lavorato molto per l’autonomia, divenne il fidato segretario che per lunghi anni accompagnò con la sua minuziosa precisione il cammino della Sezione. Forse fu anche per questo motivo che l’attività alpinistica aumentò di intensità, risalgono a quegli anni parecchie prime salite sulle montagne di casa: la via Butti sul Corno Centrale è opera di Gianni Rusconi e Giorgio Tessari. Dionigi Canali e Antonio Rusconi furono gli artefici della via don Antonio Redaelli, dedicata dai primi salitori a questo sacerdote che aveva svolto il suo ministero a Valmadrera ed era un appassionato ed attivo alpinista.

Appena giunto a Valmadrera sul finire degli anni trenta, il sacerdote si era trovato subito in sintonia con l’ambiente alpinistico, spesso era compagno di cordata di quei giovani e alla nascita della Sottosezione don Antonio venne nominato cappellano.

Uno dei più assidui accompagnatori di don Antonio fu Beppe Lucernini, il quale in seguito svolse mansioni di dirigente della Sezione.

In pieno periodo bellico, don Antonio era riuscito a scalare il Pizzo Tresero e a celebrare la messa sulla cima, poi, già nel 1949, quindi con tre anni di anticipo sui primi salitori valmadreresi “aveva dato l’assalto” al Cervino con la guida Jean Pelissier.

Negli anni sessanta Dionigi Canali, Paolo Riva, Antonio e Gianni Rusconi tracciarono sul Corno Rat la via “Concordia”, interamente in artificiale. Sul paretone Nord (350 m) del Monte Moregallo, che si trova a perpendicolo sul lago, si cimentarono Antonio Rusconi, Castino Canali, Pietro Paredi e Giorgio Tessari, che in due giorni di arrampicata prevalentemente in artificiale, con un bivacco in parete, realizzarono la via OSA, dedicandola alla associazione alpinistica locale.

Il Consiglio Direttivo della neonata Sezione CAI si mosse per organizzare un corso di roccia e quindi una Scuola di Alpinismo che venne intitolata ad Attilio Piacco, alpinista vercellese con salde radici lecchesi caduto dalla Punta Torelli in Val Masino. La scuola vide la luce nel 1966; primo direttore fu l’Istruttore Nazionale di Alpinismo Giorgio Redaelli, autore di mitiche scalate e vie nuove realizzate con le più prestigiose firme dell’alpinismo dell’epoca prevalentemente nel Gruppo della Civetta ed è per questa ragione che fu soprannominato “Re del Civetta”.

La “Scuola” cresceva, le pareti di casa divennero palestra di allenamento e l’esperienza accumulata portò i valmadreresi a imprese di maggior respiro sulle grandi montagne.

Il 1966 fu l’anno della tristemente nota alluvione in Friuli, i valmadreresi si attivarono nella raccolta di aiuti per queste popolazioni e parecchi soci della sezione diedero il loro spontaneo contributo per recapitare agli abitanti dell’Agordino i generi di primo aiuto. Il direttivo della sezione decise di mettere a disposizione una cifra per l’acquisto di beni di conforto per i bimbi di Gosaldo. Don Nino Buttol così scrisse sul notiziario stampato in occasione del “ventesimo” del CAI Valmadrera… “Infatti ritornarono a Gosaldo all’Epifania seguente. Portarono ai nostri bimbi dolciumi e giocattoli, dono dei ragazzi valmadreresi, che in quel periodo vincevano egregiamente nel concorso televisivo “Chissà chi lo sa?” La distribuzione dei doni avvenne nella sala parrocchiale, presenti i soci del CAI venuti per l’occasione…”

L’anno successivo, il 1967 Dionigi Canali e Antonio Rusconi realizzarono una bellissima impresa sulle pareti delle Grigne che fece parecchio parlare l’ambiente alpinistico per l’audacia dimostrata: fu la terza ripetizione assoluta della via Oppio al Sasso Cavallo, con due bivacchi in parete. La via era allora considerata “la più difficile via dell’intero gruppo delle Grigne, e certamente una delle più impegnative delle Alpi”, così scriveva Claudio Cima nella sua guida “Scalate nelle Grigne.

Nel 1968 iniziò l’epoca delle “grandi invernali”, l’alpinismo di Valmadrera era decollato e ormai veniva citato dai mezzi di comunicazione nazionali e internazionali.

Dalla metà degli anni sessanta fino alla metà degli anni settanta l’alpinismo fu caratterizzato dalle grandi ascensioni invernali sulle pareti più importanti della cerchia alpina, lungo le vie che in quegli anni rappresentavano il limite del possibile. Fra le cordate più agguerrite di quel periodo quella di Gianni e Antonio Rusconi, con altri alpinisti quasi sempre valmadreresi, compì imprese memorabili dove la tenacia, la sofferenza e l’affiatamento fecero del gruppo di Valmadrera una sorta di leggenda.

Gianni Rusconi era la mente e il capo carismatico di questo gruppo, il fratello Antonio era una sorta di scudiero fedele del fratello maggiore, un po’ brontolone, un po’ fatalista, ma con un cuore e una forza da fare impallidire i più famosi alpinisti dell’epoca. Giorgio Tessari coetaneo e compagno di cordata di Antonio era una sorta di formica laboriosa e prudente che non lasciava nulla al caso, pertanto il suo apporto alla cordata spesso diventava indispensabile. Poi c’erano i due giovani, entrambi di nome facevano Gianbattista, che Gianni inserì nel gruppo al momento di attaccare la parete Nord Ovest della Civetta: il Villa (Gianin) a soli 18 anni si trovò su una grande parete in pieno inverno e non si emozionò affatto (lui non è il tipo!), anzi lavorò al pari degli altri nella gestione della cordata e con gli anni ha dimostrato che il suo spirito nel fare gruppo è sempre stato vincente. All’altro, il Crimella, Gianni assegnò il compito più importante, quello di condividere la conduzione della cordata, e Crimella se la cavò sempre molto bene, perché arrampicava con una naturalezza ed una semplicità di movimento che pochi possiedono, cui aggiungeva una discreta dose di incoscienza che solo i giovani della sua età potevano avere. Questo era il gruppo valmadrerese: ad esso si aggiunse più volte un valmadrerese di adozione, Giuliano Fabbrica di Seregno che, avendo frequentato come allievo negli anni precedenti la Scuola di Alpinismo “A. Piacco”, diede un notevole contributo alla riuscita di alcune imprese. Altri alpinisti gravitarono intorno al gruppo Rusconi: Gianluigi Lanfranchi e Roby Chiappa di Lecco, Heinz Steinkotter di Trento e tedesco di adozione, Rino Zocchi ed Elio Scarabelli di Como.

Gianni Rusconi guidò questo gruppo collaudato sulle più difficili pareti delle Alpi in pieno inverno, e in altre due occasioni anche in spedizioni extra europee, al Sant’Elia in Alaska e al Pucaranra in Perù. Vale forse la pena ricordare le imprese dei fratelli Rusconi con una breve cronologia delle loro ascensioni invernali. Antonio e Gianni Rusconi dal 10 al 19 marzo 1968 scalarono in prima ripetizione e prima invernale la via Piussi-Redaelli sulla parete Sud-Ovest della Torre Trieste. Fu poi la volta della via delle Guide al Crozzon di Brenta che venne scalato in prima invernale dal 7 al 14 marzo 1969 dai fratelli Rusconi con Roby Chiappa e Gianluigi Lanfranchi. Fu poi la volta della parete Est-Nord-Est del Pizzo Badile, dove in sette giorni e dopo una decina di tentativi effettuati dal 14 al 20 marzo 1970 Antonio e Gianni tracciarono in prima assoluta e prima invernale la Via del Fratello, il loro capolavoro. I due Rusconi ritornarono in Bregaglia, questa volta sul versante settentrionale del Cengalo dal 5 al 15 febbraio 1971 per un’altra prima assoluta e invernale in compagnia di Giuliano Fabbrica, Heinz Steinkotter e Giorgio Tessari; la via venne dedicata ad Attilio Piacco. Dal 16 al 19 dicembre 1972 Gianbattista Villa, Gianbattista Crimella, Giorgio Tessari, Giuliano Fabbrica e Gianni Rusconi ripeterono in prima assoluta e invernale la Via Vera sul versante meridionale del Pizzo Badile.

Sul versante Nord-Ovest della Civetta Gianni e Antonio Rusconi, Gianbattista Crimella, Giorgio Tessari e Gianbattista Villa tracciarono la Via dei 5 di Valmadrera dal 16 al 22 marzo 1972 dopo due precedenti tentativi falliti.

Ancora sulla parete Nord-Ovest della Civetta, sulla Punta Tissi, Gianni Rusconi, Giorgio Tessari, Giuliano Fabbrica e Gianbattista Crimella realizzarono la prima invernale del diedro Philipp-Flamm dal 7 al 14 febbraio 1973. Quindi l’attività invernale del gruppo si spostò nel massiccio del Monte Bianco. Dal 28 al 30 dicembre 1973 Antonio e Gianni con Gianbattista Villa scalarono la parete Est del Dente del Gigante, prima ripetizione e prima salita invernale; dal 23 al 28 gennaio del 1974 i fratelli Rusconi, Gianin Villa, Gianbattista Crimella e Piero Ravà salirono per la via Gervasutti il Picco Gugliermina compiendo la prima invernale. Il 4 e 5 gennaio 1975 fu realizzata la prima invernale della via Bonatti alla Chandelle ad opera di Antonio e Gianni Rusconi. Infine, a conclusione di questo “storico” periodo i “cinque” di Valmadrera, e cioè i fratelli Rusconi, Tessari, Crimella e Villa dal 20 al 25 febbraio dello stesso anno salirono in prima invernale la parete Est del Grand Pilier d’Angle per la via Bonatti percorrendo un nuovo tratto che raccorda la cresta di Peuterey.

Nel 1973 Gianni Rusconi con l’aiuto del giornalista Aurelio Garobbio pubblicò gran parte di queste avventure nel libro “Pareti d’inverno” (18) del quale presentiamo alcuni brani significativi di ogni ascensione.

Da “Pareti d’inverno”

Inverno 1968

Gianni ed Antonio Rusconi si trovavano sulla parete Sud Ovest della Torre Trieste con l’intenzione di ripetere in prima invernale ed anche in prima ripetizione assoluta la via aperta da Ignazio Piussi con il lecchese Giorgio Redaelli dieci anni prima.

…“Da cinque giorni ormai viviamo circondati dal vuoto ed a pensarci bene ci meravigliamo di non sentirne l’avversione. La nostra attrezzatura è quel che è: sacco a pelo e piede d’elefante ce li hanno prestati; gli indumenti del giorno sono anche quelli della notte. “Li procureremo in seguito“, abbiamo detto e dopo questa esperienza, poco alla volta, adeguando i desideri, tanti ai soldi, pochi, ci provvederemo del necessario. Comunque, della presente penuria non ci lamentiamo: se i polpastrelli non ci facessero tanto male!

Al contatto con la roccia gelida, l’epidermide si è cotta; talvolta si sentiva la punta delle dita attaccarsi al sasso e, levando la mano, sul sasso restava un leggero strato di pelle. Si sono anche formate lunghe setole e tra queste e le spellature, le nostre povere dita sembrano quelle di un lebbroso. Con la differenza che è carne viva e spesso il contatto con la roccia è doloroso. Mentre ero intento a piantare un chiodo, mi sono concesso l’ingenuità di mettere un moschettone in bocca: subito la lingua si è attaccata al ferro ed ora ha come un anello rosso intorno alla punta. Ad Antonio cominciano ad ingrossarsi le labbra screpolate; la parte destra del mio naso si sta ingrossando; questi inconvenienti anziché attenuarsi assumeranno forme sempre più fastidiose e si aggiungerà per me un principio di congelamento ai piedi. Sono passati quattro anni e, stando ai medici, non me la sono ancora cavata del tutto. Tanto per conformarsi al ritmo di questa parete, il diedro giallo che ci sovrasta, strapiomba.

Più ci alziamo, più le difficoltà aumentano. Il sole ci ha raggiunto, batte implacabile sulla roccia nuda: l’aria diventa secca. Un’arsura crescente ci infastidisce; con il trascorrere delle ore il disagio aumenta, la gola è arsa, la lingua si gonfia al punto da non poterla muovere; limitiamo al massimo le scarse parole che ci scambiamo, perché proviamo difficoltà a pronunciarle, e dolore. Nel superare un’ennesima pancetta, un chiodo messo come si suole dire con le mani, esce. Mi trovo tre o quattro metri più sotto: dondolo con in mezzo alle gambe l’immenso vuoto, sino ai ghiaioni sotto l’attacco:non è sensazione allettante, credetemi.

Che cosa accade in simili frangenti? Si pensa troppo e si pensa niente. Non è un gioco di parole, il mio: con velocità supersonica, impressioni d’ogni genere si sovrappongono in serie infinita e nello stesso tempo la volontà e l’istinto suggeriscono i movimenti da compiere; non è concesso un attimo di titubanza e se ne ha la piena certezza. Per fortuna ho potuto dare in tempo l’avvertimento ad Antonio, che stava sul chi vive, seguendo le mie mosse; l’immediata manovra delle corde ha contenuto la caduta e tutto si è risolto senza gravi inconvenienti. Non ho mai sentito battere così forte il cuore! Con mosse da gatto, imponendomi di vincere un tremito che tutto mi percorre -eppure le mani non tremano – risalgo aiutato da Antonio, ed il suono delle mie parole mi sembra estraneo. Sono attimi, ma si incidono nella carne e non solo nella memoria. Forse vale la pena di viverli: comunque, non sono affatto un esaltatore del rischio. Eccomi ritornato in posizione normale, con i piedi appoggiati sulla roccia – anche se non con l’intera superficie della suola – e con le mani aggrappate ad appigli sicuri. Le parole di Antonio hanno il potere di ridarmi la calma: parla del chiodo, dello scorrimento della corda, di una certa staffa; “è stato un bel volo”, conclude, e così – l’animo tornato tranquillo – riparto. Il terreno è decisamente ostile: solo dopo più di un’ora di continui sforzi riesco a superare quel passaggio che sembrava volermi impedire il proseguimento della salita. Aggiro un masso incastrato ed al termine di questo tiro di corda arrivo al punto dove, di comune accordo, decidiamo di fermarci. É troppo tardi per proseguire; il buio si annuncia ed il passaggio tra il giorno e la notte sarà breve assai. Bivaccheremo seduti sui seggiolini.”

I due alpinisti lottarono per più giorni sulla parete e la loro progressione lenta ma costante dovette fare il conto con le continue nevicate notturne; le ultime difficoltà li misero a dura prova, tanto che Antonio volò e rischiò di trascinare nel vuoto anche Gianni. Dopo sette bivacchi i due fratelli raggiunsero la vetta, ma non fu facile trovare la via di discesa: la nebbia e le continue nevicate avevano reso difficile la ricerca degli ancoraggi per le corde doppie.

…“Dove siamo di preciso?” In mezzo alla nebbia, è l’unica cosa certa. E si fa notte.

Per il resto, sappiamo di aver compiuto la prima ripetizione e la prima invernale della via Piussi-Redaelli. La parte verticale è finita. “Ma dove siamo di preciso?” Insiste Antonio. “Nel buio e nella nebbia”, ripeto, e non aggiungo “in una zona a noi del tutto sconosciuta”.

Finalmente i fratelli riuscirono al buio a toccare una cengia, ma, ironia della sorte,dovettero bivaccare per un’altra notte a poche centinaia di metri dagli amici che erano saliti ad incontrarli.

Inverno 1969

Gianni e Antonio Rusconi con Gianluigi Lanfranchi (Pomela) e Roby Chiappa tentarono più volte di realizzare la prima ripetizione invernale della Via delle Guide sul Crozzon di Brenta, e alla fine arrivarono in vetta dopo sei bivacchi.

…“Verso le sette del mattino dell’otto marzo mentre siamo intenti ai preparativi per la partenza, i raggi del sole toccano la nostra cengia e sembra un altro mondo. Godiamo del tepore, dopo una notte rigida che ha congelato il respiro sui sacchi a pelo. Da quando tentiamo questa parete, è la prima volta che il sole viene a salutarci e lo consideriamo un ottimo augurio. Poi via: oggi “si gira” Parto per primo con uno zaino e la cinepresa, mi fermo su di un piccolo appoggio dopo un delicato traverso, punto l’obiettivo su Pomela che mi sta sotto, mi raggiunge, prosegue passando in testa. Il tiro seguente non è verticale e Pomela per aprirsi la strada deve spazzare la neve che si è accumulata su ogni minima protuberanza. Sta in un punto molto critico. Proseguire diventa un problema e non trova il sostegno dove mettere i piedi per fermarsi, o per chiodare. Prova e riprova e quando meno se l’aspetta, a toglierlo da una situazione così ingrata, dietro una quinta di roccia appena pronunciata scopre un chiodo. Finalmente assicurato prosegue nella ripulitura degli appigli, sale lento e deciso, metro dopo metro. Poi tocca a me e quando lo raggiungo è ormai l’una del pomeriggio. Gli lascio lo zaino, prendo il comando della cordata. Attacco una placca quasi strapiombante, tagliata da una fessura verticale che si riesce a chiodare. Ben presto, purtroppo, la musica cambia, la fessura diventa cieca, per proseguire devo ricorrere a piccoli cordini appesi a scagliette di roccia, forse tenute salde dal gelo. É quanto di più dubbio e di più incerto, ma di necessità devo fare virtù. Arrivo così all’inizio della traversata da farsi in aderenza: porta sotto il grande tetto.

In questo difficile passaggio, la base inclinata dove si appoggiano i piedi è coperta di ghiaccio; gli appigli per le mani, pochi per l’esattezza, sono scomparsi sotto la neve. Stavolta esperienza insegna – ho portato uno spazzolino ed in posizione delicata lavoro cercando di scoprire qualche appiglio, ma questi sono desolatamente piccoli e solo riesco ad infilarci le prime falangi. Mi aiuto anche con il martello-picozza, praticando degli intagli nella neve gelata e passando poi con mosse da gatto, ben conoscendone la fragilità. Mi pare di essere l’equilibrista che sta eseguendo il numero d’eccezione lasciando con il fiato sospeso; devo essere prudente e veloce; devo sostare il minimo possibile in quelle posizioni che non danno affidamento. Finalmente – gli attimi durano secoli – arrivo alla base del tetto, trovo un chiodo, con gesto rapido vi assicuro la corda e tiro un lungo respiro di sollievo. Siamo anzi in due a tirarlo, perché Pomela per tutto il tempo mi ha seguito con occhio vigile e con i nervi tesi, pronto a intervenire con le manovre in caso di volo.

É però sempre sconsigliabile il passaggio dalla teoria alla pratica, specie con sotto un vuoto di parecchie centinaia di metri. Il chiodo provvidenziale mi dà sicurezza, ma il tiro di corda non può finire qui: mancano cinque metri per arrivare al posto di fermata. Per vincere quei cinque metri di roccia, faticherò due ore e mezzo.”

Giunti in vetta cominciarono i problemi più seri, si scatenò una bufera di neve che sembrava non voler smettere mai, e nonostante i quattro avessero trovato rifugio nel bivacco posto in cima al Crozzon, erano ormai senza viveri e dovevano affrontare la lunga e complicata discesa dalla vetta.

…“La marcia è di una lentezza esasperante. Per coprire la distanza di una ventina di metri in linea d’aria, impieghiamo quasi tre ore. Proseguiamo lungo la cresta che è un continuo saliscendi, io in testa, Antonio e Pomela con gli zaini più pesanti, Roberto ultimo della cordata. Lottiamo da disperati per non venire portati via dalle raffiche.

Certi tratti sono di ghiaccio vivo; in altri affondiamo sino alle ascelle nella neve farinosa. Non parliamo, ci limitiamo ai comandi secchi. Spesso neppure gridando ci s’intende e ricorriamo a segni convenzionali, consistenti in un certo numero di strattoni alla corda che ci unisce. Quando le folate raggiungono la massima violenza, ci copriamo il naso e la bocca conle mani, per poter respirare. Gli occhi lacrimano, le lacrime gelano sulle ciglia. La faccia è martoriata da mille aghi di ghiaccio”. …“Ad un tratto scorgo sopra di noi l’inconfondibile forma del rifugio Tosa e, più in alto, il rifugio Pedrotti. Ci siamo passati vicini senza vederli, ci siamo abbassati nella valle senza accorgerci. La visione mi infonde coraggio, vorrei affrettarmi ma non ce la faccio, è già molto se riesco a muovermi.

Conto i passi nell’illusione di far meno fatica; mi metto carponi, cammino a quattro zampe, mi sembra di nuotare a cagnaccio. L’altura è sempre lontana, mi alzo, fisso quella meta, chiamo per vedere se ci sono i nostri amici, nessuno risponde. Sotto gli ultimi metri abbastanza ripidi tolgo lo zaino e me ne servo come appoggio per i piedi. Riprendo a strisciare carponi, allo stremo delle forze giungo in cima al pendio, il rifugio non c’è. Un’altra visione mi appare tra la nebbia e la neve, eguale a quella di prima: un pendio, un rifugio più sotto e un rifugio più in alto… Non ci sono amici che chiamano, non ci sono amici che attendono, non ci sono rifugi, c’è solo nebbia e neve, neve e nebbia. Chissà dove siamo finiti! Tengo tesa la corda: ad essa aiutandosi uno dopo l’altro arrivano i compagni. Guardano intorno cercando con gli occhi il rifugio, guardano me. Non una domanda, non una imprecazione. Quando il silenzio diventa insopportabile, Roberto dice a Pomela: “Abbiamo promesso di prendere la sbornia, se fossimo riusciti a scalare il Crozzon: quella promessa resterà un ricordo per chi l’ha sentita”. Antonio si accascia appoggiandosi sulla mia gamba sinistra, piange, parla della mamma: “Non la vedrò più, non la vedrò più”. Il mio cervello continua a ripetere la frase di Mazeaud: “Il dramma è cominciato e non ce ne siamo accorti”, ed è come quando un disco si incanta. Per la prima volta una gelida paura mi assale e mi sommerge: la paura di perdere qualcuno dei compagni, la paura di non tornare più a casa. La casa, mio figlio, mia moglie, aprire la porta della mia casa, entrare rilassarsi nella sicurezza. Sdraiarsi e riposare, godere del tepore… Il senso della realtà e della responsabilità mi fanno balzare in piedi. Se ci fermiamo, siamo perduti. La nevicata continua; non riconosco i pendii intorno a noi; la visuale è ridotta, sempre più si restringe. Pomela va avanti una cinquantina di metri, per vedere che cosa c’è dietro un dosso; noi decidiamo di abbandonare il materiale alpinistico, che non abbiamo più la forza di trasportare. Ecco un canale. Un secondo canale lo segue. Divalliamo affondando nella neve sino al petto. La nebbia si alza e scorgiamo un mugo. Siamo salvi!

Inverno 1970

Nel 1970 si scatenò una specie di corsa alla parete Est-Nord-Est del Pizzo Badile. L’idea era quella di scalare una linea di fessure che scende dal catino sommitale a sinistra della famosa via Cassin. Numerose cordate si interessarono a questo progetto e durante l’estate alcune di esse attaccarono anche la parete, fra queste cordate c’era anche quella di Gianni Rusconi e Franco Giorgetta (Antonio non c’era perché infortunato), che in compagnia di altri amici salirono alcune lunghezze di corda. Poi l’estate passò e la parete rimase un sogno che quasi tutti gli alpinisti misero nel cassetto. Gianni e Antonio, nel frattempo rimessosi dall’incidente,ritornarono alla base della parete in pieno inverno e cominciarono a salire con una serie di tentativi che sembravano non portare a niente di definitivo. Alla fine però, i due raggiunsero la vetta lungo una via nuova in pieno inverno, dedicando la loro impresa al fratello Carlo caduto in Grigna nel 1955. La “Via del Fratello” al Pizzo Badile è l’impresa più bella dei Rusconi. In questa scalata i due fratelli diedero prova di una tenacia e di una resistenza diventate leggendarie. Da buoni “crapuni de la Val” soffrirono e lottarono in condizioni limite e scrissero una delle più belle pagine dell’alpinismo invernale. Durante i numerosi tentativi -dieci in tutto- Gianni e Antonio furono spesso respinti a causa del cattivo tempo. Ogni volta i due cercavano di ritornare in fretta a casa per potersi presentare puntuali al lavoro, così da non consumare giorni di ferie. Alcune volte le ritirate dalla parete furono vere e proprie odissee tra continue slavine e fitte nevicate. Finalmente il tempo si mise al bello e arrivò il momento di compiere il tentativo finale; i due rimasero in parete cinque giorni consecutivi affrontando bivacchi incredibili sotto le slavine che cadevano dal catino sommitale, addirittura nell’ultimo tratto di parete, si scatenò di nuovo la tempesta.

…“È questa la notte più lunga delle nostre scalate, è desolata, ed opprimente. Non accenna a finire; il tempo si è fermato e la montagna si è messa in movimento, sembra debba crollare in queste tenebre, con una scarica dopo l’altra. Verso le 6 del 19 marzo, ed è ancora buio, decidiamo di uscire dal riparo, per troncare una situazione diventata insostenibile e cacciare i molesti pensieri dell’immobilità forzata. Che sforzo per uscire: il telo si è irrigidito, in parte è sepolto, siamo come dentro un involucro di ghiaccio. Quando finalmente riusciamo a muoverci con movimenti liberi, infiliamo a fatica il sacco a pelo nello zaino. Cerchiamo sotto la neve il materiale legato alle corde. Lo troviamo, le valanghe non l’hanno portato via. Antonio ripete continuamente le stesse frasi: “Con questo tempo non saliamo più”; “Con questo tempo non scendiamo più”.

L’uragano bianco si è scatenato. Nei brevi intervalli per prepararci alla partenza, casco, passamontagna, giacca a vento,tutto si ricopre di una fodera di ghiaccio che si estende sul viso. E lo nasconde. Batto una mano sulla spalla di Antonio: “Dài, che ce la facciamo! Pensa a Carlo, era un duro”.

Antonio non risponde. “Cento metri e siamo in vetta! Per superare quei cento metri, impiegheremo otto ore e mezzo. Salgo alla cieca. L’incrostazione di ghiaccio sul volto limita la visibilità. Ripulisco con la mano guantata l’occhio sinistro: sopracciglia e ciglia partono. Prima che riesca a ripulire l’occhio destro, quello sinistro è di nuovo ricoperto. Le slavine precipitano a valle, fra la tormenta; il vento turbinoso le ributta su dalla parete dentro l’imbuto nel quale lottiamo; la neve polverosa risale ribollendo fino a noi, ritorna a precipitare. Il vento crea continui vortici sibilanti. Tutto è in movimento; sembra che la parete non debba finire mai. AI termine di un primo tiro faccio sicurezza, recupero Antonio. Mentre salivo è dovuto rimanere fermo ed il ghiaccio l’ha foderato, sembra una bianca statua imbacuccata che si muove. Una maschera gelata gli ricopre completamente il volto. Non vede nulla. È salito seguendo la corda. L’aiuto a ripulirsi. “Non ce la faccio più”, geme, “non ce la faccio più, mi fa male il cuore”. Frugo in tasca, gli faccio inghiottire una delle pastiglie che portiamo sempre. “Dai che ce l’abbiamo fatta già altre volte”. Non mi risponde. “Pensa a Carlo. Era tutto d’un pezzo, lui. E noi gli dedichiamo questa via!”. Seguono un secondo, un terzo tiro. La tempesta acuisce la violenza. Le raffiche ci buttano addosso palate di neve. Ogni volta che Antonio mi raggiunge, devo scrostarlo dal ghiaccio. Il turbine fischia e ulula; per udire la voce del fratello devo accostare l’orecchio alla sua bocca. “Non ce la faccio più!” ripete. Non ho più nulla da dargli. Gli metto le corde sulle spalle; come un automa le prende e le manovra, per forza d’abitudine. Ho due possibilità. Proseguo diritto verso destra, con il rischio che se faccio un volo strappo via anche Antonio; oppure vado su verso sinistra, aggirando un becco di roccia e di neve che sporge e che, al caso, trattenendo la corda mi potrà fermare. Scelgo questa seconda soluzione e prima di arrivare alla forcella scorgo delle rocce nere. Punto verso esse, ma non faccio in tempo a raggiungerle, una slavina mi investe. “Volo!”, urlo ad Antonio, che non mi può sentire. Per non esser strappato via, faccio pressione sulla piccozza, punto i ramponi, dapprima sembra di essere sulla sabbia, poi di colpo, sento che le gambe lavorano, la punta della piccozza tiene, mi fermo, siamo salvi. Ripulisco la faccia dalla neve, scopro di essere trenta metri sotto il punto dove stavo. Riprendo a salire più cocciuto che mai. Nella sfortuna c’è anche un po’ di fortuna: la slavina che mi ha tirato giù ha posto allo scoperto due spuntoni di roccia. Assicuro ad essi due cordini, ricupero il fratello. Un’altra volta lo ripulisco, un’altra volta gli metto le corde in spalla. La vetta sta a trenta metri. Proseguo tastando con la piccozza, ad un certo momento sento il vuoto: sopra di me non c’è più nulla. Sono arrivato in cima.

La “via del fratello” è compiuta. Mi inginocchio e prego. Prego con il pensiero, non con le parole. Il vortice delle nubi e della neve intorno a me non mi lascia aprire la bocca; attraverso la nuvolaglia squassata dal vento filtra un raggio di sole. È il momento indescrivibile del compimento di un’impresa, ma l’attimo sublime trascorre fulmineo, è già passato. La realtà mi chiama: noto una specie di cassa formata da due lastroni verticali e ci salto dentro; ricupero velocemente il fratello che viene su alla cieca. “Siamo in vetta”, urlo, “siamo in vetta!”

Inverno 1971

Nell’inverno 1971 Gianni e Antonio non partirono più soli, ma con altri tre amici. I cinque alpinisti attaccarono la parete Nord del Pizzo Cengalo alta 1300 metri, dove non esisteva nessuna via diretta alla cima. Durante questa ascensione Gianni Rusconi perfezionò la tecnica di progressione già sperimentata sulla Via delle Guide, che nelle invernali successive gli permise di scalare grandi pareti con un relativo margine di Sicurezza. La tecnica consisteva nel dividere i compiti all’interno della cordata; una cordata, quella di punta, apriva e attrezzava la via e la cordata d’appoggio seguiva sulle corde fisse portando gli zaini più pesanti. Successivamente Gianni chiamò questa tecnica “della chiocciola” ricordando un vecchio adagio dialettale che recita “La và, la và la sprega adrée la cà”. In quell’anno si unì ai Rusconi anche Giorgio Tessari, amico fraterno e compagno di cordata di Antonio, che fu presente in quasi tutte le invernali successive dando un grosso contributo alla realizzazione delle stesse. Mentre Heinz Steinkotter fece parte del gruppo solo al Cengalo, Giuliano Fabbrica, il quinto componente della cordata, continuò per alcuni anni il sodalizio con i valmadreresi. L’invernale alla parete Nord del pizzo Cengalo per una nuova via denominata “Attilio Piacco” si svolse in due tentativi; il secondo venne portato a termine dopo undici giorni di permanenza in parete. Come durante l’ascensione alla “Via del Fratello” fu determinante l’aiuto del capo del Soccorso Alpino della Val Bondasca Dino Salis, il quale si teneva continuamente in contatto radio con la cordata, ne seguiva i movimenti e informava gli alpinisti degli eventuali cambiamenti meteorologici. La parete si presentava particolarmente impegnativa in quanto alternava passaggi strapiombanti con difficoltà tecniche elevate a tratti leggermente più adagiati dove la neve e il ghiaccio coprivano anche la più esile fessura.

…“E’ domenica 13 febbraio. Dopo il decimo bivacco ne dovremo affrontare un altro? Siamo a duecentocinquanta metri dalla vetta, forse sono solo duecento. Comunque non c’è tempo da perdere: è opportuno approfittare di questo intervallo di calma per alzarci il più possibile. Partiamo subito. Heinz senza zaino è in testa; poi io con lo zaino; gli altri tre ci seguono con l’intero materiale. Le difficoltà si mantengono sul V grado; ad ogni tiro si ha l’illusione – alimentata dalla speranza – che sia l’ultimo, ed invece non é finita. Un camino ghiacciato terrà impegnato Heinz, non sempre i chiodi vogliono entrare e se entrano sono malsicuri. Finito il camino sento Heinz che tira un respiro di sollievo. Il tratto che gli sta davanti gli sembra facile. Ma non lo è. Se ne rende conto appena attacca, brontola, ripete “è uno schifo” teme di non riuscire a passare, s’inquieta, si calma, protesta, riprende le abili ponderate mosse di sempre, ce la fa. Anche quest’oggi il tempo è volato; ci troviamo ad un centinaio di metri dalla cima. “Scorgete la vetta?” , chiedono con insistenza quelli della seconda cordata.

Heinz è impegnato in una traversata, lotta con il ghiaccio e con la roccia, la sua schiena pronostica il cambiamento del tempo e gli fa male, teme di non riuscire ad arrivare in vetta.Trova il posto per fissare un bel chiodo, si ferma, mi cede il comando, gli lascio lo zaino. Il ghiaccio sulle placche di granito si fa sempre più sottile, tanto che i gradini che vi pratico più non reggono il peso del corpo. Mi viene in mente che una volta, un po’ per gioco un po’ per esercizio, mi creavo con il martello dei piccoli appoggi sulla roccia: lo faccio ora, con un’intera parete sotto di me, e riesco a passare. Risalgo così per lungo tratto, tenendomi sulla punta delle scarpe e quando non ce la faccio più per la fatica e per la tensione, ecco una provvidenziale fessura da passare alla Dulfer. Qualche metro, un bel chiodo americano piazzato in modo da infondere una fiducia illimitata, e ricupero Heinz. E’ buio. Un nevischio rabbioso nulla lascia scorgere, c’è uno scivolo di sessanta, settanta metri molto ripido, sopra il quale dovrebbe iniziare il gandone che porta alla vetta. Le otto di sera. Legato con un cordino di sette millimetri, lungo cento metri, continuo a salire. Heinz mi fa sicurezza. Dapprima la neve é molle, diventa poi più compatta e più dura, alla fine non riesco nemmeno a piazzare la punta degli scarponi. Mi servo del martello-piccozza, scavo a colpi rapidi e nervosi, ho fretta di giungere in cima, in gara con le tenebre. Arrivo alla roccia, metto le mani sulla roccia, cerco il punto più adatto per superare il gandone, mi muovo a tentoni; sono ormai le nove di sera, adesso, ma sono contento e canto. Canto di gioia perché abbiamo la vittoria in pugno, canto per rincuorare ed incitare i compagni che non vedono nulla, ne sanno in qual punto preciso ci troviamo, e così anticipo la lieta notizia. Presto saranno fuori dalle difficoltà. Una volta arrivati tutti e cinque, spostiamo delle pietre per ricavare le due piazzole per le tende, fissiamo le tende, ci mettiamo in comunicazione con Salis. Impegnati su passaggi difficili abbiamo mancato tutti gli appuntamenti radio del pomeriggio ed egli stava in pensiero. Si rasserena udendoci, si rallegra della nostra vittoria, ci salutiamo con un “buona notte”. Attraverso la folata di neve portata dal vento vediamo brillare le stelle.

Valmadrera – Alaska 1971

Nell’estate 1971 il gruppo collaudato durante le invernali organizzò una spedizione extraeuropea con l’ambizioso progetto di scalare il Monte Sant’Elia in Alaska per una via nuova lungo lo Sperone Est. Alla spedizione parteciparono Gianni e Antonio Rusconi, Giorgio Tessari, Giuliano Fabbrica, Rino Zocchi ed Elio Scarabelli. Il Sant’Elia, alto 5943 metri, era stato scalato una sola volta da una spedizione italiana guidata dal Duca degli Abruzzi nel 1891. Da allora nessun’altra persona aveva raggiunto la vetta di questa isolatissima montagna nord-americana. Gli alpinisti allestirono il campo base sul ghiacciaio Savoia, pieno di insidiosi crepacci, e durante i primi giorni di permanenza furono bloccati nelle tende a causa di forti nevicate.

…“Al settimo giorno, ed è il 15 luglio, esce il sole. Zaini in spalla e via. Della pista non è rimasta traccia; gli orli dei crepacci, le gobbe tormentate, le rose dei seracchi, le crestine, tutto è ovattato dalla neve fresca che ammorbidisce ogni spigolo; qua e là le nebbie salgono lungo i canali, sostano a banchi a metà delle pareti, finché una corrente d’aria le scompagina sfilacciandole. È uno spettacolo sublime, sa di risveglio ed affondando e ansimando l’ammiriamo. Eccoci alla base della nostra cresta che ha cambiato volto; saliamo lungo il tratto già noto. La tenda del campo uno è semisepolta; per il resto… prima l’itinerario appariva difficile ma percorribile, ora è diventato del tutto impraticabile.

Le condizioni sono pessime: esili cornici di neve inconsistenti, sporgono su pareti di mille, di milleduecento metri; tratti di cresta andrebbero percorsi a cavalcioni per duecentocinquanta, per trecento metri e forse più. Nessuna misura di sicurezza è valida su quel terreno ovattoso, cedevole, permeato d’insidie. Quasi a confermarcelo, mentre osserviamo delusi la parete che stiamo salendo, con sinistro rimbombo una delle cornici si sfascia e precipita. Proseguire significherebbe addossarci un rischio enorme contro assai scarse possibilità di riuscita. Decidiamo di scendere. Ed è tornando indietro che abbiamo ad ogni istante la conferma di quanto pericolosa sia la posizione nella quale ci troviamo. “Smontiamo il campo!” Spiace, e molto, ma nessuno solleva obiezioni. In silenzio ci mettiamo all’opera, guardandoci quasi di sfuggita. Il sogno superbo di scalare il Sant’Elia per questa elegantissima cresta crolla nel vuoto come le cornici che la tormenta ha ingrossato, plasmandole.

Più delle fatiche sostenute per raggiungere questa quota, ci pesano i giorni impiegati ai quali purtroppo si sommano gli altri dell’immobilità forzata. Anche la discesa continua ad essere un problema perché con il trascorrere delle ore la neve tiene sempre meno. Il fruscio sinistro delle slavine ci accompagna insieme al sordo tonfo finale e alla nube di neve sollevata; lo spettacolo è di una grandiosità terrificante: non ci troviamo però nelle condizioni di spirito adatte per ammirarlo e goderne, e soprattutto non ci conviene perdere istanti preziosi.

Più presto ci tiriamo fuori, meglio è.” …“Verso le diciassette dai fianchi del Sant’Elia si stacca una valanga di proporzioni straordinarie, al di la di ogni immaginazione. Metà della parete est si mette in movimento, poi sembra che l’intero fianco crolli. La smisurata massa di neve raggiunge il ghiacciaio, l’attraversa ricoprendolo, sbatte contro le pareti del Monte Newton,sprigiona un gelido polverone ribollente che invade l’intera vallata e sale fino alle cime. Per qualche tempo è buio; i teli delle tende sbattono con violenza per il potente spostamento d’aria. Sentiamo i gelidi brividi della paura. Ognuno la legge negli occhi dell’altro, cerca di compiere qualche atto, spostare un sacco, muovere una racchetta, fissare la corda di un telo, per superare il momento del grande panico. Non passa mezz’ora, ancora non ci siamo rimessi da tanto spavento, e un altro boato sordo ed ancor più assordante ci atterrisce: stavolta è il Monte Newton che scrolla di dosso la coltre di neve; la colossale valanga piomba a picco sul ghiacciaio sotto di noi, il ghiacciaio vibra e trema. Un fungo enorme, simile a quelli delle esplosioni atomiche, s’avventa contro il cielo, dilatandosi con velocità incredibile. Un vento furioso pregno di pulviscolo nevoso ci investe, acceca, asfissia:

dobbiamo lottare con ogni forza, aggrappandoci come possiamo, per non essere portati via insieme alle tende. Tanto veloce è lo sconquasso di quel finimondo, tanto lento il ritorno alla normalità. La folata del vento si placa, cessa, ma per un bel po’ la neve continua a cadere, poi si cominciano ad intravedere le cose, ritornando la luce. Ristabilita la calma, osiamo ricacciare la testa fuori dalle tende. La neve polverosa che si è depositata intorno a noi, raggiunge i trenta centimetri; sopra di noi le montagne sono sempre belle, ancor più belle, come se nulla fosse accaduto.”

La cresta Est, che con lo spigolo Nord-Est era l’obiettivo principale della spedizione, risultava impraticabile, perciò il gruppo decise di raggiungere la cima seguendo la via percorsa dal Duca degli Abruzzi nel1891. La salita non risultò per nulla semplice, gli insidiosissimi crepacci del ghiacciaio Savoia e la neve inconsistente impegnarono gli alpinisti in una progressione continua lunga tutte le ventiquattro ore della giornata, visto che a quella latitudine e in quella stagione non esiste la notte.

…“All’1,30 di notte stiamo piccozzando l’ultima cornice di neve che ci separa dal filo della cresta. Nel giro di mezz’ora, tutti e sei siamo sul sospirato colle Russell. Che stracchezza! Il cuore martella per l’altitudine. Fa molto freddo, occhio e croce saranno trenta sotto zero. Indossiamo giacche a vento e pantaloni imbottiti, scaldiamo un po’ di tè e ogni sorso ci risolleva. Alle due e trenta si parte: ci attende la maestosa piramide della vetta. Si soffre di mal di capo, di giramenti di testa, di vomito. Ognuno ha la sua e dipende dall’alta quota e dall’eccessivo sforzo. Antonio è passato davanti a darmi il cambio; Elio, legato con Antonio, sta sempre peggio, cerca di non lasciarlo capire, talvolta prende persino il comando della cordata. Gli altri vanno rimettendosi. Ad un certo momento Elio si ferma, colto da violenti conati di vomito. “Non insistere”, gli dico. “A quest’altezza, spesso non siamo noi a comandare”. Di tornare indietro, proprio non se la sente: “Bisogna andare in vetta”, ripete.

Continuiamo così sino a 5.200. Elio si ferma, sta male un’altra volta. Vorrebbe partire, è ammirevole questa sua forza di volontà, ma la tenacia non basta.

Elio Scarabelli non ce la faceva più, con lui si fermarono Gianni e Giorgio. La cima venne raggiunta da Antonio Rusconi, Rino Zocchi e Giuliano Fabbrica. Gianni, visto il miglioramento delle condizioni di Elio andò incontro ai tre in vetta ed alla fine le cordate si ricongiunsero e ritornarono insieme al campo base.

Gli alpinisti avevano ancora alcuni giorni a disposizione prima che l’elicottero arrivasse a prelevarli dal ghiacciaio, perciò decisero di compiere un ultimo tentativo allo spigolo Nord-Est. Purtroppo le condizioni della parete restarono pessime tanto che il gruppo rischiò un serio incidente.

…“Riprendo a salire, un altro boato è seguito da quanto si temeva. Su di un fronte di circa duecento metri si stacca un lastrone ed ha lo spessore di una sessantina di centimetri. Lancio l’allarme e faccio un salto nell’aria così parecchia neve mi passa sotto senza travolgermi. Ricadendo di peso rompo volutamente il lastrone con tutte le forze e riesco a conficcare piccozza e ramponi nella sottostante neve solida. La corda che mi lega al fratello si tende, Antonio è stato trascinato, cerco in ogni modo di rimanere ancorato alla superficie solida, la neve mi ricopre completamente. Riuscirò a resistere? Non ce la faccio più e quasi nello stesso tempo sento che sono fermo. Soffoco. A fatica caccio fuori la testa, respiro, guardo intorno, scorgo Rino e Giorgio, la terza cordata che la valanga non ha toccato. Dove sono gli altri? Anche la seconda cordata è stata investita. Ecco, una testa spunta dalla neve, anche le altre emergono, respirando affannosamente. Siamo vivi, è la prima constatazione; siamo incolumi, è la seconda, e ci solleva l’animo. Con tanto sconquasso possiamo dirci fortunati. Ci togliamo la neve di dosso, spazzolandoci con le mani, guardiamo sotto di noi: avremmo fatto un bel salto di mille metri. Il pendio lungo il quale la valanga ci ha trasportato, prima del precipizio attenua la verticalità in un falso piano, breve assai: però è bastato perché ci potessimo fermare.” …“Eppure, nessuno parla di fermarsi: vogliamo farcela, dobbiamo farcela ed infatti alle quattordici la lunga cresta imbronciata e spietata sta alle nostre spalle. Siamo a quota 4600. Davanti a noi inizia lo scivolo finale che senza eccessive difficoltà ci porterebbe in vetta. Ed in vetta, invece, non si va. Il tempo è diventato così brutto che non possiamo né procedere, né fermarci: ci impone di scendere, e subito. Ci caleremo un’altra volta sullo scivolo nevoso con la differenza che il dislivello è assai maggiore. Modelliamo un fungo di neve del diametro di quattro metri, forse di più e tutt’intorno, per dargli maggior consistenza, conficchiamo chiodi da ghiaccio della lunghezza di novanta centimetri. Facciamo passare una fettuccia intorno al gran cerchio dei chiodi ed alla fettuccia leghiamo un cordino da sette millimetri, lungo cent’ottanta metri. Mi calo per primo. Che senso d’oppressione! La nebbia mi inghiotte, non vedo dove vado a finire, ignoro se il cordino sia lungo a sufficienza per portarmi sul sospirato pendio nevoso. Non sono però sguarnito: ho un secondo cordino da sessanta metri. Itinerario da brividi: a malapena tocco con la punta dei ramponi la parete di ghiaccio, cosi almeno non comincio a girare; a circa metà del cordino la nebbia si apre e per un attimo scorgo che sto di misura sotto il tiro di alcuni seracchi. Intravvedo una striscia bianca, è neve, ma riuscirò a raggiungerla? Il cordino finisce prima, annodo il secondo, continua la discesa e non posso dirla “a corda doppia”, perché di corde ce n’è una sola. Il vuoto in compenso è triplo, quadruplo… Un sasso piuttosto grosso mi colpisce tra testa e collo; il dolore mi stordisce, ma per poco; mi riprendo. A raccontarlo non sembra vero: i due cordini annodati parevano fatti su misura, non un metro di più e non un metro di meno, per depositarci “sull’uscita di sicurezza”.

…“Il grande obiettivo dell’inverno 1971- 1972 non era per noi la sud del Cervino. La Gran Becca, nelle nostre intenzioni, costituiva il preludio di ben altra impresa; per questo eravamo scattati così presto. La nostra attenzione era assorbita dalla nordovest della Civetta, la “regina delle pareti”, dove Solleder e Lettenbauer hanno aperto l’era del sesto grado. Il sogno era ambizioso, realizzare una direttissima in prima assoluta ed in contemporanea prima invernale su quella fantastica muraglia dove si sono cimentati i maggiori alpinisti del mondo.”

Come spiega bene Gianni nel suo libro, il tentativo alla parete Sud del Cervino agli inizi dell’inverno era soltanto un banco di prova per la cordata che a partire da quell’anno si arricchì di altri due elementi, giovani e pieni di entusiasmo. La realizzazione della “Via dei 5 di Valmadrera” fu la consacrazione di un modello di alpinismo fatto sul gruppo e non sull’individualità. Gianni, da grande leader quale era, dirigeva un gruppo ben assortito ed affiatato, dove ognuno svolgeva il proprio compito senza nessuna ambizione personale, tipica invece di altri gruppi alpinistici.

…“Il 29 gennaio del 1972 partiamo in sei: mio fratello Antonio ed io, Giorgio Tessari, Giuliano Fabbrica, Gian Battista Crimella,Gian Battista Villa. Gli ultimi due sono alla prima esperienza invernale. Saliamo a Canale d’Agordo a prendere Livio De Bernardin, il custode del rifugio Tissi. Lo conosciamo da anni, dalla Torre Trieste per essere precisi, ci siamo poi visti d’estate. Stavolta si prodigherà per intere settimane, salendo ripetutamente con noi al rifugio e mettendo in moto la teleferica per il trasporto del materiale dal fondovalle al Col Rean. L’altezza della neve, già considerevole a Listolade, aumenta via via che ci inoltriamo in Val Corpassa. “Tira un po’ tu”, dice a un dato punto chi sta davanti e da quel momento ci daremo il turno nel battere la pista.”

…“Prima che si faccia buio, i componenti  della seconda cordata si calano sino alla base e rientrano al rifugio Tissi, per trascorrere la notte. Crimella ed io ci fermiamo a bivaccare in una nicchia, a quasi trecento metri dalla base. Il ricovero è abbastanza ampio; dentro, attaccata alle pareti, sistemiamo la tenda. Nevica e quasi subito cominciano le valanghe, aumentando di volume e di frequenza. Stanchi come siamo, non riusciamo a chiudere occhio per il rumore terrificante. Sembra che la montagna vada in pezzi, la roccia sulla quale siamo sdraiati vibra e sussulta, quasi scossa dal terremoto. La situazione muta quando le tenebre diradano: la parete è diventata impraticabile e ci ha imprigionato. “Siamo in trappola come topi!”, esclama mestamente Crimella, che ha perso il sorriso. Uscire dal nostro antro significa essere schiacciati e portati via. Il riparo è abbastanza comodo: potremmo affrontare a cuor leggero una prova di resistenza con il maltempo, se disponessimo di viveri. Ci troviamo invece a corto. Le provviste che avevamo dovevano bastare per la cena di ieri e la colazione di stamani; salendo dal rifugio, i compagni avrebbero portato gli alimenti indispensabili per proseguire nella scalata.

Già ieri sera, visto come si mettevano le cose, abbiamo fatto economia sul cibo e sul combustibile. Ora la fame si fa sentire e crescerà con le ore; l’inazione la accentuerà, insieme al colore sempre più bigio dei pensieri: per due giorni e tre notti resteremo nella grotta e l’orrendo concerto ci terrà compagnia.”

…“La mattina del 26 febbraio, Crimella ed io partiamo: il problema della giornata è ingente; c’è il grande tetto da superare. Ce la facciamo, tra neve, nebbie e valanghe in un’abbondanza che vanno oltre ogni capacità d’immaginazione. Sotto il tetto godiamo di una certa protezione naturale, stando come al riparo di una grondaia; sopra il tetto è un inferno. Troviamo una piccola nicchia, ci tiriamo dentro per riposarci, poi la decisione che prendiamo non è voluta, ma imposta: si ridiscende alla cengia.

Bivacchiamo insieme tutti e quattro, ed è per me la nona notte consecutiva che trascorro in parete. Al mattino è sempre brutto, siamo immersi in un umidore appiccicaticcio caldo e gelido, dalla testa ai piedi. “Si scende?“ Ci guardiamo in faccia. Con una parete in queste condizioni, con un tetto del genere, che altro possiamo fare?” .

Dopo due tentativi e continui viaggi in auto da Valmadrera fino a Listolade, e a volte fino al Rifugio Tissi, arrivò il momento dell’assalto finale. Al rifugio si ritrovarono in cinque, tutti di Valmadrera, Giuliano Fabbrica era influenzato, perciò non poté essere della partita.

…“Il sedici marzo comincia la terza fase della nostra avventura: sveglia e partenza alle sei. Giuliano Fabbrica non è potuto venire, non si è ancora ristabilito. Ci spiace assai. Siamo soltanto in cinque: “i cinque di Valmadrera”. La quantità di neve caduta dal cielo e slavinata dalla parete dall’ultimo nostro tentativo in poi è ingente. Le corde fisse lasciate sono sepolte. Ci apriamo la strada a colpi di piccozza, saliamo su neve dura. Siamo divisi in due cordate e la formazione non muterà: Crimella ed io siamo la cordata di punta, Giorgio, Villa, mio fratello Antonio seguono ricuperando ed avviando il materiale. Se vogliamo trovare una similitudine per il nostro sistema di scalata, possiamo pensare alla chiocciola. La và, la và, la porta adre la cà si dice da noi. La cordata di punta avanza; l’altra “porta dietro la casa”. Se la cordata di punta non trova il posto adatto per il bivacco, le cordate retrocedono sin dove è rimasta “la casa”, come fa la chiocciola quando sentendo un pericolo si ritira dentro il guscio.”

…“All’alba del 20 marzo due sorsi di tè a testa e partenza. Compio una traversata di quaranta metri su neve inconsistente e ghiaccio. Dopo questo, un altro tiro, sempre sotto le scariche. Da stamani ci muoviamo su quella che ho definito la terza zona della parete. Arriviamo alla base di un salto strapiombante; dal basso l’avevamo giudicato difficile, la supposizione è confermata in pieno. La nostra direttrice puntava a sinistra; sulla destra si vedeva una grotta. Ora siamo troppo sotto per poterla scorgere. Non ho più corda per proseguire, mi fermo.“Piega a destra”, dico a Crimella. C’è un’altra grotta, e dovrebbe essere alla nostra destra, press’a poco all’altezza in cui ci troviamo; l’abbiamo sempre studiata con il binocolo; ora è indispensabile trovarla. Il primo tentativo va buco; Crimella insiste guardingo e paziente, la traversata che sta compiendo è molto impegnativa, però lo ricompensa: “C’è”, mi grida. Lo annuncio ai compagni: “Portate il materiale”. “Trascorreremo un’altra notte uniti”. La seconda cordata fa salire il materiale lungo un tracciato esasperante, compie prodigi di equilibrio perché i pesi fanno sbandare: noi due della prima diamo inizio alle manovre per superare un repulsivo salto di roccia. Crimella passa in testa: si direbbe che l’azione lo rinvigorisca tanto si muove spedito: ha forza e coraggio da vendere! Tre soli chiodi su un tiro di quinto superiore! …È l’ultimo giorno dell’inverno: “finirà anche questa parete”, brontola Antonio e come sempre ripete che è l’ultima volta: “Non mi becchi più”. L’atmosfera del bivacco è serena, siamo vicini alla vetta e il tempo, se non migliora, non accenna a peggiorare. Finito il collegamento radio i discorsi saltano arguti da un argomento all’altro: noi “vecchi” ascoltiamo le storielle bizzarre dei giovani ogni tanto punzecchiandoli, ed essi controbattono con qualche frizzo salace. “Dormiamo?” “Vorresti andare a ballare?”. “Cerca di non russare, stanotte!” Alle sei del mattino si parte; ognuno porta il proprio materiale. Sto in testa sino al punto massimo raggiunto ieri; Crimella che ha uno zaino più leggero mi da poi il cambio.” …“Aiuto la seconda cordata a salire. “È la vetta?” Chiedono. La vetta è ancora lontana, non si scorge un posto dove bivaccare. Il cielo è grigio – piombo, lunghe nubi inquiete s’accumulano, le ultime luci danno riverberi metallici alla roccia. Prima che raggiunga Crimella sono le diciannove. Intravvedo sulla destra un ripiano protetto, dove ci potremo sistemare. Si intaglia in un erto pendio nevoso, sotto uno strapiombo. Attraverso mentre il compagno sta ancora in alto: “C’è posto per tutti”, avverto. “Meglio di quanto pensassi”. Siamo assai indaffarati e rimandiamo più volte il collegamento radio con Livio. Alle ventidue siamo riuniti; mezz’ora dopo possiamo trasmettere le notizie. “Dove siete di preciso”? chiede Livio. Glielo spieghiamo. “Tira aria di neve”, dice; “qui nevica da un’ora”, ribattiamo. Proprio così: ciò che si temeva ogni qualvolta si avvicinavano nubi minacciose è accaduto e per l’intera notte la nevicata ci terrà compagnia, in questo bivacco all’aperto. Alla mattina del 22 marzo “tè per tutti”, come promettono i programmi delle gite sociali, con la differenza che per noi c’è solo quello, ed in razione scarsa. Non è novità di gran conto, la vera novità è un’altra, la parete ha cambiato faccia, è tutta bianca. Saranno tre centimetri di neve, non di più, ma si sono posati dappertutto, e come di consueto il vento non ha dimenticato d’impastarli sotto gli strapiombi. Un primo tiro, poi si presenta un problema che adesso per noi è insolubile: ci sono trenta metri nel vuoto, esigono un numero notevole di chiodi e ne abbiamo pochissimi. Anziché forzare la salita, cerchiamo una linea naturale. Si tratta di scendere sei o sette metri lungo un diedro per arrivare in tal modo ad una specie di nicchia sotto un grande tetto rotto da più fessure larghe”. …“Attacca”, lo invito. “Devo stare vicino agli altri”, e li esorto infatti a seguirci il più vicino che possono. Per i primi tre metri, Crimella va su a fatica, poi ritrova la carica, è padrone di sé, della sua sicurezza, del suo stile. Sosta solo dopo una trentina di metri, su passaggi di V e di VI. Giunto alla fermata mi ricupera, ma devo poi scendere a liberare la corda per gli altri. La bufera ci riavvolge astiosa, insopportabile. Sceglie i momenti peggiori per saltarci addosso. Si respira a fatica, non si vede più niente. Poi, di colpo come è subentrata, cessa. Le cortine s’allontanano, sembrano veli giganteschi sospesi sulla valle. Le corde riprendono a scorrere. Nel silenzio immenso che si è ricucito: “vetta!” “vetta!” grida Crimella. Sento un colpo al cuore. Dal rifugio Tissi sale l’urlo di quelli che ci stanno osservando, e vedono il primo di noi profilarsi contro il cielo. Sono le 13.40. Alle 16 arriverà in cima l’ultimo dei “cinque di Valmadrera”.

Il libro di Gianni Rusconi, pubblicato agli inizi del 1973, termina con il racconto della “Via dei 5 di Valmadrera”, il gruppo valmadrerese continuò però a compiere salite invernali per altri tre anni.

Inverno 1973

Alla fine del 1972 poco prima di Natale il gruppo era già in movimento. Dal 16 al 19 dicembre Gianni e Antonio Rusconi, Gianbattista Crimella, Giorgio Tessari, e Gianin Villa scalarono in prima ripetizione invernale la via “Vera”, tracciata l’estate precedente dal lecchese Claudio Corti e Claudio Gilardi sulla parete Sud del Badile. Il vero obiettivo di quell’inverno era la via Philipp-Flamm sulla parete Nord-Ovest della Civetta, un itinerario parallelo alla via tracciata in pieno inverno proprio l’anno precedente dai cinque di Valmadrera. La corsa per l’invernale al diedro Philipp- Flamm era aperta da parecchi anni e sembrava fosse ormai “l’ultimo grande problema delle Alpi”. Molti alpinisti avevano creduto che nell’inverno precedente i valmadreresi avrebbero attaccato la via in questione, e la meraviglia fu grande quando i due Rusconi e soci tracciarono un nuovo itinerario. Quell’inverno 1973 al rifugio Tissi soggiornarono parecchi alpinisti e molti furono gli assalti alla parete. Gianni Rusconi aspettò e, da grande conoscitore della Civetta, si portò all’attacco della parete quando gli altri avevano ormai gettato la spugna. In cinque giorni la cordata valmadrerese scalò la parete, sbalordendo l’ambiente alpinistico e compiendo un’impresa che è rimasta negli annali della storia dell’alpinismo. In quell’occasione il gruppo di sei persone si ridusse a quattro per la forzata assenza di Antonio, che all’ultimo momento fu trattenuto da impegni di lavoro, e di Villa, che era partito per il servizio militare. Così, con Gianni si ritrovarono Crimella, che condusse la cordata, Fabbrica e Tessari, che svolsero la funzione di cordata di appoggio. La salita presentò notevoli difficoltà, ma l’allenamento e l’affiatamento del gruppo erano ormai tali da rendere superabili anche le cose impossibili. Così successe che Tessari, vedendo Crimella esposto nel vuoto a fare giochi di equilibrio impensabili, e conscio del rischio, gridò in dialetto: “Va minga sö inscée sgularc” e quello per tutta risposta un secondo dopo cadde, rimanendo appeso alla corda con un vuoto di seicento metri sotto i piedi. La sana incoscienza di Crimella insieme all’esperienza e alla prudenza di Gianni erano il motore della scalata che a sua volta si avvaleva dell’aiuto della cordata di appoggio, la quale si sobbarcava il maggior sforzo fisico.

Di quegli anni di grandi invernali si narrano svariati aneddoti. È significativo che dopo ogni grande ascensione compiuta erano esaltate non tanto le difficoltà tecniche, quanto le “goliardate” e le situazioni tragicomiche che si verificavano durante la scalata.

Inverno 1974

Dopo le Alpi Centrali e Orientali, nell’inverno 1974 venne il momento di provare anche una invernale al Monte Bianco. Negli ultimi giorni del 1973, precisamente dal 28 al 30 dicembre, venne compiuta la prima invernale della parete Est del Dente del Gigante da Gianbattista Villa, Gianni e Antonio Rusconi. Questa realizzazione servì da allenamento e da ambientamento alla quota. Circa un mese dopo Gianni e i suoi attaccarono la Via Gervasutti al Pic Gugliermina, una parete di granito nel cuore del Monte Bianco alta 800 metri. L’ascensione durò cinque giorni e una volta raggiunta la cresta sommitale, finite le difficoltà e visto il peggioramento delle condizioni atmosferiche, i componenti della cordata scesero lungo la via di salita. Nell’ambiente alpinistico, dove le polemiche nella maggior parte dei casi prevalgono sui fatti, si diede per incompiuta quell’invernale, e nell’inverno dello stesso anno un’altra cordata percorse per intero la via e si aggiudicò l’iscrizione negli annali dell’alpinismo.

Inverno 1975

Fu l’ultimo inverno durante il quale il gruppo dei valmadreresi fece parlare delle proprie invernali: Gianni guidò i suoi compagni di cordata ancora nel gruppo del Monte Bianco. Cominciarono con un’ascensione di allenamento e scelsero la breve ma intensa via Bonatti alla Chandelle, proseguirono, sempre sulle orme di Bonatti, sull’ampia e articolata parete Est del Grand Pilier D’Angle. Durante questa scalata la cordata di Gianni e Antonio Rusconi, Giorgio Tessari, Gianbattista Crimella e Gianin Villa non riuscì a seguire perfettamente la linea della via Bonatti e si ritrovò a raccordare due itinerari diversi con una nuova variante. Il proseguimento dell’ascensione portò gli alpinisti in cima al Monte Bianco lungo la cresta di Peuterey, dove, con una temperatura molto rigida, affrontarono una discesa estremamente dura.

Nel frattempo

Nel frattempo una nuova generazione si affacciò con determinazione per continuare quella tradizione alpinistica classica sulla scia del “Nuovo Mattino”. Essa comprendeva Mosè Butti, Romano Corti, Gian Maria Mandelli, Elio Rusconi, Antonio Sacchi, Paolo Cesana, Felice Vassena, Franco Corti e Franco Tessari, fratello di Giorgio. Questi ragazzi oltre a ripetere i grandi itinerari delle Alpi andavano alla ricerca sulle montagne locali – sui Corni di Canzo e in particolare sul Moregallo – di angoli non ancora scoperti che davano però la possibilità di realizzare itinerari interessanti

Così all’alba del 1973 Gianbattista Villa, che poi nel 1974 diventò Aspirante Guida Alpina, Antonio Sacchi, Elio Rusconi e Gian Maria Mandelli diedero anima a quel capolavoro di via sulla cresta Sud-Est del Moregallo denominata “Cresta G.G. OSA” o più familiarmente “Crestina”, oggi di gran lunga la più frequentata scalata di tutto il gruppo Moregallo-Corni.

Per meglio capire la mole di attività di questi giovanotti basti pensare che nell’anno solare 1976 aprirono una decina di itinerari mettendo a frutto i dettami della nuova tendenza, che era quella di limitare al massimo l’uso dei tradizionali chiodi da fessura, preferendo a questi i nuovi ritrovati come mezzi di protezione (nuts) e lasciando in questo modo le pareti “pulite”.

Un esempio di via che rispecchia questa nuova filosofia di arrampicata è la “Valmadrera 78”, tracciata da Gian Maria Mandelli, Franco Tessari, Franco Corti ed Elio Rusconi sull’anticima Est della Pala di Socorda ai Dirupi di Larsec (gruppo del Catinaccio, Dolomiti).

In quegli anni parecchi soci parteciparono ai corsi indetti dalla Commissione Nazionale Scuole di Alpinismo e Scialpinismo, nel 1976 Giorgio Tessari e nel 1984 Beppe Dell’Oro diventarono Istruttori Nazionali di Scialpinismo, nel 1980 Gianbattista Crimella e Franco Tessari e nel 1986 Gian Maria Mandelli superarono i corsi per diventare Istruttori Nazionali di Alpinismo. Il 1978 fu un anno denso di eventi. Dopo tredici anni di presidenza, Giordano Dell’Oro cedette la guida della Sezione a Giorgio Tessari. Nello stesso anno Gianbattista Crimella venne ammesso al Club Alpino Accademico Italiano.

Nel frattempo fu istituita in seno alla sezione una Scuola di Scialpinismo e la direzione del primo corso venne affidata a Ruggero Dell’Oro che con altri amici contribuì alla sua nascita. Ruggero ebbe quale valida collaboratrice la moglie Cristiana Del Buono, forte alpinista e scialpinista che all’epoca svolgeva mansioni di segretaria. Alpinista di ottimo livello, Ruggero ha svolto, prevalentemente con Cristiana, una grande attività sulle montagne di tutto l’arco alpino ed insieme i due hanno tracciato diverse vie nuove sulle pareti dei Corni di Canzo, una delle quali -la C.R.i.’S- è stata battezzata con le loro iniziali. Scialpinista di elevate capacità, nel 1977 Ruggero aveva ottenuto la nomina a Istruttore di Scialpinismo. Nel 1973, Ruggero rimase vittima di un gravissimo incidente alla base del Pilastro Nord-Ovest del Cengalo: il cedimento di un pilastrino di roccia lo aveva fatto precipitare per una quarantina di metri causandogli fratture agli arti e alla scatola cranica, procurandogli uno stato di coma durato sei giorni. Gli fu necessario molto tempo per riprendere una vita normale, ma nonostante quella brutta esperienza continuò e continua a svolgere una notevole attività alpinistica e scialpinistica.

Con il supporto dell’assessorato alla cultura del comune di Valmadrera nel 1979 venne data alle stampe la guida delle vie di arrampicata del Gruppo Corni di Canzo e Moregallo, curata da Gian Maria Mandelli e Giorgio Tessari.

Nel 1980 Antonio Rusconi venne ammesso al Club Alpino Accademico Italiano.

La direzione della Scuola di scialpinismo passò a Giorgio Tessari, mentre quella della scuola di alpinismo a Gianni Rusconi. Proprio in quell’anno furono allievi dei corsi indetti dalla nostra scuola tre giovani, Paolo Crippa, Domenico Chindamo e Alberto Tegiacchi, che diventarono poi fortissimi alpinisti e in seguito istruttori della scuola stessa.

Per quattro anni consecutivi venne organizzato un campeggio estivo, prima a Bellamonte, poi nella valle di S. Lucano. Nel biennio 1982-1983 Franco Tessari subentrò al fratello Giorgio alla presidenza della sezione, successivamente Giorgio venne di nuovo rieletto presidente e rimase in carica dal 1983 al 1985.

Iniziarono gli anni delle avventure extraeuropee: nel 1984 Mino Brusadelli, Enrico Beretta, Gianbattista Villa, Gianbattista Crimella e Gianbattista Magistris partirono per la penisola del Sinai, “alpinisticamente” quasi sconosciuta. Sulle pareti di rosso granito i valmadreresi tracciarono diversi itinerari di arrampicata usando esclusivamente protezioni removibili (friends e nuts) e visitando alcune valli nella zona del Monastero di Santa Caterina. La vetta del Pik Lenin nel Pamir venne invece raggiunta dalla piccola spedizione scialpinistica di Beppe Dell’Oro, Oreste Forno e Renato Cason.

Una conferma del valore della nostra scuola arrivò alla fine dell’anno. Alla sezione di Valmadrera venne conferito il premio “Grignetta d’Oro” per l’attività alpinistica svolta dai giovanissimi Paolo Crippa, Beppe “Biba” Rusconi, Marco Rusconi e Alberto Tegiacchi. Il 1985 vide il cambio al vertice della scuola Attilio Piacco, Gianbattista Crimella succedette a Gianni Rusconi.

Domenico Chindamo, ormai istruttore della nostra scuola, partì per la Patagonia con una spedizione alpinistica di Como, e raggiunse la vetta del Fitz Roy; intanto Gianbattista Crimella, Mino Brusadelli e Gianbattista Villa toccarono la cima di 5896 metri del Kilimanjaro in Kenia.

Il 1986 si aprì con il rinnovo del direttivo della sezione, venne eletto presidente Gianbattista Magistris affiancato da un consiglio composto da parecchi giovani. In una delle prime riunioni venne proposta l’idea di realizzare un notiziario che contenesse non solo le notizie della sezione, ma che fosse aperto al contributo di “firme” esterne; venne costituito un comitato di redazione che ideò e realizzò “VERTICE”.

Nello stesso anno maturò l’ambizioso progetto di tentare una nuova via alla parete Ovest della Torre Egger, in Patagonia, partirono per quella meta Gianbattista Crimella, Paolo Crippa, Gianbattista Villa, Maurizio Maggi, Domenico Chindamo e Paolo Cesana. Il sogno non poté essere realizzato a causa delle persistenti pessime condizioni atmosferiche. Anche sulle Alpi Retiche del Masino-Bregaglia i nostri lasciarono il segno: una nuova via sulla parete est della Sciora di Dentro venne tracciata da Gian Maria Mandelli e Romano Corti; anche Felice Vassena e Sergio Panzeri andarono a segno sulla Fiamma del Torrone con nuovi itinerari.

Sulla maestosa parete Nord-Ovest della Civetta, proprio sulla Punta Civetta, Paolo Crippa, con Walter Bellenzier e Giusto Callegari, aprì un nuovo e difficile itinerario. Gianbattista Crimella insieme al piemontese Corradino Rabbi venne chiamato a rappresentare il C.A.A.I. in Nuova Zelanda in occasione dei festeggiamenti del centenario della realizzazione del primo parco naturale, e in quell’occasione salì alcune cime tra cui il Monte Cook. I giovani nuovi talenti, Alberto Tegiacchi e Paolo Crippa compirono imprese di notevole livello: Alberto assieme a Dario Spreafico scalò la Salathé Wall sul Capitan nella Yosemite Valley, negli Stati Uniti, Paolo sempre con Dario Spreafico aprì due nuove vie: una di grande difficoltà (VII+) alla parete Nord-Ovest della Punta Civetta, l’altra sulla parete Nord-Ovest del Pizzo Cengalo.

Su “Vertice” si lesse la notizia che “per la prima volta nella storia della sezione di Valmadrera si sono avviate le operazioni organizzative per una spedizione alpinistica in Himalaya”.

In effetti, come risulta da documenti ritrovati recentemente, la prima spedizione fu “Valmadrera – Alaska 71” organizzata dalla Sezione e sostenuta dall’Amministrazione Comunale con i contributi delle associazioni sportive, da aziende e da molti privati cittadini.

Il 4 agosto 1988 partirono da Milano alla volta di New Delhi sette “ragazzi”, capitanati da GianMaria Mandelli, tutti istruttori della scuola di alpinismo Attilio Piacco. Il 6 settembre tre di loro raggiunsero la cima del Kedarnath Peak per una via nuova sulla parete Sud, via che venne chiamata “Valmadrera 88”.

Componevano la spedizione: Mandelli Gian Maria, capo spedizione, I.N.A.; Chindamo Domenico, I.A., C.A.A.I.; Corti Romano, I.A.; Farina Mauro, A.I.; Sala Lorenzo, A.I.; Vassena Felice, I.A.; Villa Gianbattista, A.G.A. Dopo essere partito da New Delhi il 7 agosto, il gruppo installò il campo base dopo quattro giorni di esplorazione sul ghiacciaio, e iniziò il lavoro di approccio e di attrezzatura della parete. Le cattive condizioni atmosferiche obbligarono gli alpinisti a continui saliscendi dalla parete, tanto che in quindici giorni di tentativi erano riusciti a progredire di soli settecento metri. Il 30 agosto il tempo migliorò, il gruppo partì per tentare l’attacco finale, dal 1° campo installato a 5200 metri si portò fino a quota 5600 metri dove montò il 2° campo, quindi attrezzò la parete con corde fisse fino a 6000 metri. Dopo quattro giorni e tre bivacchi, il 6 settembre alle ore 11, Gianbattista Villa, Lorenzo Sala e Domenico Chindamo raggiunsero la cima in perfetto “stile alpino”. Gianmaria Mandelli e Mauro Farina si fermarono ad un centinaio di metri dalla vetta per assistere Romano Corti colpito da un principio di assideramento. Felice Vassena non poté partecipare alla parte finale della scalata perché sofferente di bronchite.

La parete vera e propria ha inizio a 4500 metri ed ha un dislivello di 2400 metri con uno sviluppo di circa 3000 metri. La complessa parete Sud del Kedarnath Peak si divide in quattro settori: la parte inferiore fino al plateau a quota 5200 metri è caratterizzata dal ripido e insidioso ghiacciaio che scende dal plateau stesso. Gli altri tre settori comprendono lo sperone che porta direttamente alla vetta: il primo, la “Triangular Rock”, il secondo la “Middle Rock Wall” e il terzo la “Top Rock Wall”. La linea di salita dei valmadreresi è diretta fino alla Top Rock Wall e devia poi a sinistra per raggiungere la cima. La decisione di evitare la Top Rock Wall fu presa per la mancanza di tempo a disposizione degli alpinisti, essi infatti raggiunsero la cima solo il giorno prima che iniziassero le operazioni di smantellamento del campo base. Durante la scalata furono installati un campo base avanzato a 4500 metri, un 1° campo a 5200 metri ed un 2° campo a 5600 metri. Dal 2° campo la salita è proseguita in stile alpino con tre bivacchi, a 6000, 6200 e 6700 metri circa. La parete presenta difficoltà dal 3° al 5° grado e tratti di artificiale su roccia e pendii di ghiaccio da 40° a 75°. Il gruppo trascorse un totale di venticinque giorni al campo base, gli ultimi nove dei quali, in parete.

Kedarnath, nel ricordo

Il tempo che passa lascia in tutti noi dei ricordi che, belli o brutti che siano, ci restano impressi nella memoria. Alcuni poi sbiadiscono col tempo, altri cominciano a far parte di noi e senza volerlo li richiamiamo alla memoria nei momenti e nelle situazioni più strane. Talvolta capita che, improvvisamente e senza particolari motivi, ricordi alcuni istanti dell’avventura al Kedarnath. Sono come dei flash in apparenza insensati se considerati singolarmente, ma che mi fanno rivivere con intensità le gioie e le ansie passate.

…”Finalmente ha smesso di piovere, penso di essere intorno ai 4.250 metri di quota e sono solo su un crestone morenico; davanti a me vedo il fronte del ghiacciaio dal quale sgorgano le acque del sacro Gange. Sono due giorni che vaghiamo su questa maledetta morena e non siamo ancora riusciti a trovare un posto adatto per piazzare il campo base; la pioggia ininterrotta e la nebbia non ci danno tregua. Gianin e Romano hanno voluto proseguire aggirando il crestone, io sono salito direttamente in cresta, al momento non vedo gli altri, ma sono sicuramente divisi in gruppetti alla ricerca di una radura. Mi fermo ad osservare quanto mi è concesso di vedere: la nebbia finalmente si alza e da qui posso inquadrare la situazione. Da questa posizione riesco ad individuare un po’ tutti, Lorenzo solo soletto sta risalendo il torrente in direzione del fronte del ghiacciaio, Felice, Mauro e Domenico sono ad un centinaio di metri sotto di me, mentre Gianin e Romano continuano a salire. Li osservo un po’ mentre arrancano attorno ad alcuni grossi massi: sono voluti salire a tutti i costi, ma in quella direzione troveranno solo ghiaccio. Gridando a squarciagola riescoa far capire loro di scendere. Ormai è pomeriggio inoltrato ed è anche ora di rientrare a Kedarnath per metterci qualcosa d’asciutto. Mi abbasso lungo la cresta e mi fermo ad aspettare Romano e Gianin, dopo aver discusso un po’ con loro capisco che vorrebbero ritornare lassù l’indomani per vedere meglio il luogo. Io non sono d’accordo e riesco a convincerli a desistere e a riposare per un giorno, aspettando che si asciughino i panni e ci si schiariscano le idee. Ora mi rendo conto che non sempre eravamo concordi sulle scelte da compiere, ciò che realmente contava per noi era rimanere insieme e in accordo su tutto.

“Ancora 5 metri e poi ci sono, maledizione non ci arriva la corda”. “Domenico, la fisso qui, poi sistemala tu fino lì sopra”. Mi slego e salgo gli ultimi metri che mi separano dal plateau. Lo spettacolo che mi appare è proprio come me l’aspettavo, il cuore della parete sud del Kedarnath Peak è davanti a me, la linea di salita da noi immaginata sulle foto è reale e percorribile: questo vuol significare che non ci eravamo sbagliati. Arrivano anche Domenico e Romano, e tutti e tre ci fermiamo a lungo a contemplare la maestosità dell’ambiente. È da parecchi giorni che aspettavamo questo momento, ma il brutto tempo ci ha permesso solo ora di vedere da vicino la nostra parete. Ieri abbiamo scavato per tre ore sotto un “diluvio universale” per riuscire ad installare una tendina, e dopo aver ben preparato il piano la tenda non voleva lasciarsi montare.

Il nervosismo che contenevamo ormai a stento si è trasformato in una canzone cantata a squarciagola da tutti quanti, finché la tenda ormai fradicia fu pronta. Oggi, dopo aver installato 600 metri di corde fisse, ci troviamo a 5.200 mt, siamo saliti su un altro gradino di questa grande parete e domani i nostri amici ci daranno il cambio con la ferma intenzione di proseguire.

Non manca molto ad arrivare in cresta, ora la posso vedere abbastanza bene, mi fermo per riprendere un po’ di fiato e poi riparto di slancio per affrontare un tratto di roccia striato da sottili canali di ghiaccio. Da più diquattro ore sto arrampicando oltre i 6.000 metri, ed anche se la fatica si fa sentire riesco a godermi il granito e il ghiaccio del Kedarnath mischiati in un cocktail fantastico. Tutto su questo tratto di parete sembra preparato per essere scalato: canalini di ghiaccio che si infrangono contro barriere di granito o che si ramificano sulla roccia stessa formando un terreno misto di selvaggia bellezza. Ormai sono in cresta, mi assicuro e mi sporgo verso il vuoto per gridare: “Sono arrivato, vieni pure”. Non ricevo alcuna risposta, poi la corda si tende ed il mio compagno comincia a salire. Solo adesso mi guardo attorno e rimango inebetito dallo straordinario spettacolo che mi si presenta. Sotto di me un mare impetuoso di nubi che si accavallano e si infrangono giungendo a sfiorarmi e mi permettono di ammirare forme e colori indescrivibili. Rimango immobile per parecchi minuti, mi sembra di essere fuori dal mondo, forse sono in paradiso: tutto sotto di me sembra agitarsi e dibattersi come sempre, invece dove mi trovo sono circondato dal silenzio e da montagne quiete e beate. Io stesso mi sento parte di questa tranquilla visione, non provando alcuna preoccupazione per le torri di granito e le creste di neve che mi sovrastano. L’arrivo dei miei compagni, ed il conseguente lavoro che ci aspetta per piazzare le tendine, mi risvegliano e mi riportano alla realtà: certamente quei momenti vissuti da solo su quella cresta a 6300 resteranno fra i più intensi di tutta la mia vita. “Come stai?”. Chiedo a Romano. “Adesso meglio, mi spiace per voi”, mi risponde. Ormai siamo arrivati sul plateau dopo una serie di corde doppie; la temperatura su questo versante al riparo dal vento sembra essere più accettabile. Durante l’ultimo bivacco a 6.700 metri, Romano si è mezzo assiderato, perciò Mauro ed io siamo rimasti con lui per aiutarlo a riprendersi, mentre Gianin, Lorenzo e Domenico hanno compiuto, senza di noi, l’ultimo balzo verso la cima. Ora, mentre scendiamo verso il campo base il ritornello si ripete: “Mi dispiace per voi… speriamo che gli altri ce l’abbiano fatta”. Sprofondando ogni tanto nella neve soffice portata dal vento cominciamo la traversata del plateau alla fine della quale riprenderemo a scendere. La stanchezza comincia afarsi sentire ed ogni tanto ci fermiamo a riprendere fiato. In questi ultimi otto giorni di scalata non abbiamo effettuato pause, la nostra progressione è stata continua, e quell’incidente all’ultimo bivacco potrebbe avere vanificato i nostri sforzi. Finalmente, guardando verso la cresta sommitale, riusciamo a scorgere tre puntini: sono i nostri compagni che stanno scendendo. Cominciamo a chiamare: i tre agitano le braccia, ma non sentiamo alcunché. Andiamo avanti a gesti per una decina di minuti poi, nell’attimo in cui cessa il vento, riesco a percepire la netta voce di Domenico: “Gianni, vittoria!” Di colpo mi si piegano le gambe, sono in ginocchio, ma alzo le braccia per dare una risposta ai nostri amici. Romano, finalmente, si tranquillizza e Mauro mormora: “Meno male, almeno loro”. Ci sediamo tutti e tre nella neve, ce l’abbiamo fatta e non importa se non abbiamo raggiunto la cima materialmente, in questa salita c’è un po’ di tutti noi, delle nostre ansie, delle nostre paure e delle nostre speranze. Romano recrimina di nuovo: “Mi dispiace per voi”. Quando ci rialziamo per partire siamo stanchissimi, dobbiamo attrezzare le corde doppie per i nostri amici e non abbiamo tempo da perdere, ma la tensione che ci aveva sorretto fino a pochi minuti prima e ci dava la carica per resistere è sparita e la discesa così diventa lunga e penosa. Il solito nebbione pomeridiano ha coperto la parte alta della parete cosicché dal campo 1 possiamo a malapena vedere la Triangular Rock. Da quando siamo rientrati al campo 1 continuiamo a scrutare la parete alla ricerca dei nostri amici, sperando che l’avanzante oscurità non li costringa a bivaccare di nuovo.

Siamo consapevoli di quanto possano essere stanchi, e quanto sia pericolosa in queste circostanze la discesa. Ma all’improvviso li vediamo spuntare sulla sommità della Triangular Rock e Mauro, che durante la nostra avventura ha interpretato a tutte le quote il ruolo di cuoco, si dà un gran da fare tra i fornelli per preparare bevande calde. Dopo un paio di ore, Lorenzo e Domenico attraversano il grande crepaccio che separa il campo 1 dal resto del plateau: li accogliamo con abbracci, pacche sulle spalle e tanta emozione. Gianin, buon ultimo, si è fermato sul bordo esterno del crepaccio: e con il suo sorriso senza denti sembra il sole raggiante. Mi raggiunge e il nostro abbraccio è talmente intenso che quasi cadiamo a terra. Siamo entrambi commossi, tra noi, al di là delle nostre incomprensioni e dei nostri caratteri a volte contrastanti c’è sempre stato un filo che ci lega da vent’anni ed è la nostra amicizia. Ora l’euforia si impossessa di noi e cominciamo a parlare a voce alta come se fossimo distanti decine di metri. Rievochiamo così le tappe della nostra salita, ed il nostro pensiero è per Felice, che a causa di un’insistente bronchite non ha potuto partecipare con noi all’assalto finale. Così si fa buio e ad uno ad uno ci infiliamo nelle tende; l’ultima battuta è per Gianin: “Chissà come i saran cuntent in la Val”. Eh sì, saranno proprio contenti a Valmadrera.

di GianMaria Mandelli